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Non c’è forse giorno più adatto del 25 aprile per pubblicare la recensione di “Barbarico” di Giovanni Lindo Ferretti.

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E non tanto (o non solo) per il quasi automatico collegamento tra questo anniversario e la Resistenza partigiana che tanta parte ha avuto nella Emilia di Ferretti, quanto perché, se c’è un artista che di Liberazione – nel senso più ampio ed alto del termine – ha parlato, cantato e scritto , questo è proprio Ferretti. Lo ha fatto come cantante dei “CCCP – Fedeli alla Linea”, inneggiando alla liberazione da una visione stereotipata e manichea del Bene e Male, lo ha continuato a fare con i CSI poi e con i PGR dopo, disseminando qua e la spunti di riflessione intimi e canzoni destabilizzanti, libero di essere libero anche se hai un disco per settimane in cima alla classifica dei più venduti. Ha continuato a farlo smessi i panni del cantante a tempo pieno, combattendo e vincendo la sua battaglia con il tumore ai polmoni, testimoniando la sua fede cattolica e ritornando a vivere nella casa di famiglia tra le montagne dell’Appennino, “liberandosi” – è il caso di dire – degli orpelli della civiltà tecnologica da cui la maggior parte di noi è circondata.

“Barbarico” è un libro scritto su carta ma chi ha ascoltato Ferretti cantare su un palco o raccontare in teatro, “Barbarico” è un libro parlato, una sorta di epopea personale che riecheggia la vita quotidiana della “bella gente d’Appennino” raccontata – par di sentirlo – con il tono, le pause e l’enfasi di chi, prima di scriverlo, lo ha vissuto in prima persona.
Citando in un gioco così scontato da apparire quasi doveroso una sua canzone, Ferretti ha bruciato il megafono in cui lo si voleva trasformare, ha rivoluzionato ancora una volta la sua vita ed è tornato sui suoi passi, nel suo sangue, tra la sua gente, le sue case, i suoi cavalli, perché si compisse appieno la sua parabola umana.

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La pagina scritta scorre con la prosa delle sue canzoni, aggettivi e assonanze si rincorrono e li immagini cantati dalla sua voce così particolare; non è più “Punk Islam”, non è più “Emilia Paranoica”, non più i paesaggi lontani della Mongolia o le austere architetture della Berlino filosovietica, ciò che doveva accadere è accaduto e la scelta è stata fatta: “Dal comunicare come conseguenza dell’esistere si è passati all’esistere come effetto della comunicazione” scrive Ferretti, e chi oggi dia anche solo un rapido sguardo al delirio da social network non può che condividere; c’è chi vi sguazza compiaciuto, c’è chi vi si adatta a malincuore, c’è chi recide i cavi e sceglie altro, rinunciando a “Un anonimo delirio da contatto per connessione digitale copia e incolla, scarica e mixa”. Non è facile e non è semplice, occorre procedere con cautela, come in montagna: “Avvolti da fitta nebbia, impediti allo sguardo, procedere passo su passo senza riferimento certo […] Bisogna far conto sulla memoria, sulla conoscenza acquisita e sedimentata, allertare l’attenzione perché la somiglianza delle forme e le suggestioni dello spirito facilmente confondono”. E’ il destino del viandante sulla terra e nello Spirito, e così “trovare rifugio può essere la sola possibilità cercando di santificare e non dannare i propri giorni.

Ferretti potrebbe sembrare contraddittorio: sceglie una sorta di esilio quotidiano ma scrive libri e fa concerti: ipocrisia furba, contingenze economiche o necessità di un confronto con l’altro da sé? Ciascuno formuli la sua ipotesi, la risposta Ferretti la fornisce forte e chiara in queste pagine, e di tutto lo si potrà accusare ma non certo di non essere chiaro sino ad una spietatezza lancinante. In tempi di amori tossici ed affetti di plastica, leggere del rapporto con sua madre è un vero toccasana; in luoghi dove la natura è sfruttata, violentata e offesa gustare i suoi racconti di boschi che ritornano li dove gli uomini avevano imposto strade è illuminante; in momenti in cui l’egoismo sembra regnare incontrastato, ricordare la sapienza millenaria di generazioni sopravvissute grazie all’aiuto reciproco tra uomini ed animali è un monito prezioso.

“Barbarico” non è un romanzo, non è un saggio e non è una biografia, o forse è tutto ciò e molto altro ancora; è di certo un libro che vale la pena avere, leggere senza fretta centellinando ogni parola, lasciandola sciogliere lenta e facendo emergere sensazioni e suggestioni. Non è un libro che tutti apprezzeranno, ma è senz’altro un libro che in tanti dovrebbero leggere.
Affinando lo sguardo, circoscrivendo lo spazio del vivere quotidiano, ho perso sintonia con gli accadimenti che determinano la cronaca e il divenire del mondo.
Non ne sento mancanza.
Eppure sono vivo, cosciente di quale dono sia vivere, so della necessità di renderne merito e dei doveri che mi competono.
Conosco molto delle mie colpe. So che sarò giudicato di fronte a Dio e posso solo sperare nella Sua misericordia.
Non nutro altre speranze.
La mia fiducia nelle capacità e possibilità dell’umanità oscilla tra l’applicazione della regola benedettina: ora, lege et labora e il buon senso tradizionale. Non credo che telefonando, fotografando, in rete collegati ed informati cresca di un’oncia la meraviglia del vivere.
Sono vecchio, operando per lo più per reazione tendo ad essere reazionario.
Montano per discendenza e per scelta, per contingenza da centocinquant’anni italiano ma sono italico da secoli e secoli e il futuro non è dato; cattolico romano in lotta perenne con un substrato barbarico, un sentire profondo che secoli di fede e devozione hanno contenuto, limato, educato ma, inutile mentire, affiora qua e là prepotente: occhio per occhio, dente per dente.

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