Leonida di Taranto
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Sono in un ritmo provenzale. Le Calabrie che ho vissuto con Corrado Alvaro sono un intercalare di vocalizi. Si vive sempre tra linguaggi perduti e giochi di parole. Come una favola persa e una favola ritrovata.

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Io sono una antropologia che è impastata nella metafisica e nella terra delle mie radici. Cosa sono le radici? Mia madre. Mio padre.
La terra che ho camminato lungo i giorni delle mie età e delle mie epoche in un paese che aveva lo spazio delle solitudini. Un paese vuol dire non essere soli mi ha raccontato Pavese. Corrado Alvaro mi ha detto che “la vita non è che un rasentarsi di solitudini”. L’ho invitato tra le mie pagine e mi è rimasto accanto (cfr. Il viaggio accanto, Ferrari editore).

Ho viaggiato. Abbiamo viaggiato. Abbiamo attraversato terre e la Grecia è rimasta sempre nell’anima. Vivo di infanzia smarrita e di parole che riportano, come Alvaro, il tempo dell’infanzia.
Alvaro: “I calabresi mettono il loro patriottismo nelle cose più semplici, come la bontà dei loro frutti e dei loro vini. Amore disperato del loro paese, di cui riconoscono la vita cruda, che hanno fuggito, ma che in loro è rimasta allo stato di ricordo e di leggenda dell’infanzia”.
“Dei Greci, i meridionali hanno preso il loro carattere di mitomani. E inventano favole sulla loro vita che in realtà è disadorna. A chi come me si occupa di dirne i mali e i bisogni, si fa l’accusa di rivelare le piaghe e le miserie, mentre il paesaggio, dicono, è così bello”. Perché le favole ci inventano. Anzi. Ci reinventano.

Giunge una Sirena e ci canta:
Fino a perdermi negli orizzonti ascoltami.
Poi non ci sarò più.
Farai in modo di trovarmi
perché cercarmi sarà impossibile.
Come il vento che ferisce una favola
resterò impossibile
assente tra le nuvole e le ombre
e vicino alla distanza del tuo navigare.
Mi troverai senza avermi cercato.
Il giorno ti sembrerà più corto e sarà come guardarmi negli occhi
in un mattino di pioggia sul giardino
sotto la palma dell’infanzia.

Essere Mediterranei è aver assorbito il vento che tira dalle nostre parti e porta le voci tra le onde di un mare chiuso e di un mare aperto. Abbiamo di fronte l’Africa e spostandosi verso Levante incontriamo l’Albania. L’Albania è la terra dove l’Adriatico diventa Mediterraneo e si incrociano gli Orienti intrecciandosi tra mondo arabo e asiatico. Civiltà che hanno nomi. Greca. Araba. Persiana. Latina.
Il tempo non si è fermato. È diventato semplicemente uno sguardo. In ogni sguardo sembra cogliere una favola ferita.

Nuovamente ascolto il canto della Sirena che ha ritmo di notte:
Chi lancerà la spada per ferire la favola colpendo il sogno?
Non dirmi che sarà il vento.
O la zingara con gli anelli di rame e di sole venuta dal mare?
Ho raggiunto le tue foglie colore della luna e mi sono addormentato
sulle mani della notte.
In un altro spazio gli dei danzano senza suoni e senza canto.
Chi mai colpirà il sogno tentando di ferire la favola?
Non ci sarà sorte per il Cavaliere che sull’onda della rugiada offende una dama in amore.

Mentre Corrado Alvaro mi ripete: “La lontananza è il fascino dell’amore. Amarsi vicini è difficile”. Poi: “La passione per l’infinito ci spinge verso la donna. Infinito, non finito?”. L’infinto è appunto la favola che raccoglie nel suo incipit il senso della nostalgia. C’era una volta una principessa vestita di rosso e portava negli occhi il mare del mattino…
Sono anni che attraverso Pavese, Pirandello. Alvaro e il mondo delle rivolte portandomi dentro l’esilio che diventa la mia vera eredità e la mia patria (Maria Zambrano) e nulla mi sfugge pur frammentando i codici di una letteratura che si fa quotidianità, lontananza e magia.
Sempre con la consapevolezza alvariana che va oltre le maschere e ci lascia con la saggezza che “La vita non è altro che una comunione di solitudini”. Comunione o rasentarsi di solitudini? Fino al punto di essere convinti che “Nessuna libertà esiste quando non esiste una libertà interiore dell’individuo” (Alvaro). E come tutti i grandi amore, la terra diventa il vero amore nell’intreccio dei radicamenti. Chi vive accanto ha un immaginario quasi sospeso. Chi vive oltre sa che “La lontananza è il fascino dell’amore” (Alvaro).
Ma tra l’oltre e l’accanto c’è sempre il destino del dentro che lega le geografie degli erranti per definirli come geografie del ritorno. L’accanto, l’oltre e il dentro sono i “fantasmi” del nostos. Il mio viaggio accanto è proprio questo legame che ha i dettagli della luna sul mare e gli incavi delle case di roccia sulla terra lambita dai mari. Alvaro racconta: “La storia oggi sembra un susseguirsi di fenomeni naturali.

Gli uomini acquistano la fatalità degli elementi. Tutto sembra preparato da lungo tempo e covato da azioni e reazioni simili a quelle delle acque del sottosuolo della terra”. Simboli e strategie. Miti e archetipi che logorano la memoria ma restano come scavi d’anima nel nostro esistere e nel nostro essere. “Attraversate il vasto mare e accanto all’Esaro fonderete Kroton”. Pare che dicesse l’Oracolo di Delfi, nel VII secolo A.c. Pavese tratteggia tutto in un immaginario straordinariamente simbolico: “La gente di questi paesi è di un tatto e di una cortesia che hanno una sola spiegazione: qui una volta la civiltà era greca”.
Il senso della grecità, dunque, non è soffuso. È maternità. È pater che respira il sollievo della madre. Padre e madre che stringono le zolle di terra dove si è camminato, dove si camminerà con le memorie del mondo sommerso e dove nei labirinti si troverà il tempo del vissuto per disegnarlo nel tempo che ci aspetta. Madre e padre nelle identità ritrovate.

Ancora la Sirena si lascia ascoltare:
Mia madre è il paese delle voci che raccontano i silenzi
di mio padre e restano appesi ai falò
della luna.
Eppure bisogna recidere ogni malinconia
per vivere i destini delle solitudini
nel cavo delle conchiglie che raccontano
c’era una volta
una vela bianca
nel vento di terra.
I silenzi di mio padre
sono voci di paese
nei sorrisi stanchi
di mia madre.
Tutto il viaggio fino a raccogliere la favola o le favole che ricompongono il nostro insistere nella memoria che non è mai storia e diventa sempre labirinto. Una favola può rompersi? Essere ferita? La morte ha la capacità di rompere, di spezzare, di lacerare, di frantumare, di strappare… Non tutto può ricomporsi. Sino a poter raccogliere l’ultima stella tutto è pensabile e nel possibile si aprono finestre sul mare.
Cadde l’ultima stella e per prudenza la luna fermò il vento
in un alito di terra.
La favola che racconterò
l’ho già vissuta e forse è vano
ascoltarla ancora.
Mai per vanità ma per amore
custodirla è non ferire la sua erranza.
Perché raccontarla è abitarla
come una stanza in cui ogni suono è verità.

La vita allora non resta altro che “un rasentarsi di solitudini”? Con Alvaro si vivono questi viaggi e ogni viaggio resta un mio nostro viaggio. Nella vita che è fatta di lontananze e di vicinanze. Come nel Colloquio con la madre di Pirandello. Siamo eterni perché siamo infiniti. Siamo infiniti perché conosciamo le linee degli orizzonti.
Perché in fondo ci sottolinea Alvaro: “Il calabrese è curioso di conoscere e di sapere, la sua delizia è ascoltare le persone colte che parlano, anche se a lui non arriva interamente il senso dei grandi e profondi concetti. È come il povero davanti allo spettacolo di una festa apparecchiata, non per lui, ma di cui gli arrivano i suoni, le luci, i colori. Senza invidia. Con un cocente rimpianto d’un bene fatto per tutti gli uomini”.

Con questo rimpianto che non resta tale la frantumazione del viaggio resta comunque un viaggio accanto in un batter di suoni provenzali.

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