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Due miliardi è la cifra che verrà investita a Taranto, dopo l’approvazione del 7° decreto “Salva Ilva” del governo Renzi per cercare di salvarla. L’industria siderurgica secondo Confindustria vale lo 0,5 per cento del Pil italiano. Di questi 2 miliardi, si conta molto sui 1,2 miliardi al momento sotto sequestro della Procura di Milano ma non ancora confiscati.

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Il 7° decreto pare abbia innescato la fiera delle promesse. Con 300 emendamenti tanti sono gli impegni assunti, come tanti sono stati quelli di questo e dei governi precedenti nei confronti della città di Taranto, puntualmente disattesi. Intanto la confisca degli 1,2 miliardi sequestrati non sembra così sicura. I giudici elvetici, visto che i miliardi risiedono all’Ubs di Zurigo, dovrebbero aspettare una sentenza passata in giudicato prima di consegnarli. E non si capisce perché l’ipotesi che gli avvocati dei Riva possano risultarne vincitori, visto che ci sono altri gradi di giudizio, non debba essere considerata. A meno che non si voglia in maniera subliminare condizionarne i giudici d’appello e di Cassazione, con una ragione di stato.

Ammesso poi che i miliardi sequestrati siano confiscati in breve tempo, dovrebbero essere utilizzati per le bonifiche ambientali dell’Aia. Ci sono poi in aggiunta a questi, 156 milioni di Fintecna riguardanti gli oneri ambientali della gestione IRI, accantonati quando si ebbe il passaggio della gestione dell’acciaieria dallo stato alla famiglia Riva. Anche questi, capitali destinati al miglioramento dell’ambiente, rischiano di essere impegnati per coprire le perdite di gestione.

Resterebbero quindi più disponibili e prima degli altri, solo i soldi delle banche: 260 milioni messi a disposizione da Intesa San Paolo e Unicredit e dei 400 milioni di finanziamento ponte della Cassa Depositi e Prestiti, la prima tranche di 150 milioni.

Tutto questo, ben poca roba rispetto ai 3 miliardi di euro di debiti Ilva, certificati il 31 gennaio 2015 dal tribunale fallimentare di Milano. Tra l’altro, ricordiamo per la cronaca, che tra l’estromissione dei Riva dalla conduzione dell’azienda dell’agosto 2012, all’esproprio senza indennizzo del gennaio 2015, sono passati 30 mesi. Si può dire che in questi 30 mesi si sono fatti i 3 miliardi di debiti, ben 100 milioni al mese. Perché? Perché prima dei procedimenti giudiziari iniziati il 12 luglio 2012, nel 2011 risultavano a bilancio dell’azienda oltre 6 miliardi di ricavi. E come mai si sono fatti questi debiti in trenta mesi? Evidentemente per le inchieste, per i provvedimenti giudiziari, per il controllo di legalità sugli impianti che ancora oggi per due terzi sono sotto sequestro e che hanno frenato il ciclo produttivo e il piano industriale e così via.

Ma si potrebbe obiettare che era indispensabile tutto ciò. È il male minore ?
Teniamo anche presente che 1,5 miliardi, è la metà del debito di 3 miliardi bruciato in 30 mesi. Questi sarebbero bastati per l’ambiente visto che tale risulta il costo necessario per le bonifiche ambientali dell’Aia.
E in alternativa 3 miliardi equivarrebbero a circa 30 mesi di salario per i 15mila dipendenti Ilva e a tante altre cose che si sarebbero potute fare, come onorare i debiti nei confronti dei creditori Ilva, autotrasportatori e indotto, ospedali oncologici per bambini (invece appena 5 milioni di euro stanziati per l’oncologia pediatrica) e così via, mancanti sono gli interventi per potenziare l’Arpa.

Ora si è arrivati al decreto numero sette, ed evidentemente la cura praticata dal Pd e dal resto del governo che la ha appoggiata, è stata inefficace, per cui si è dovuta variarla.

Il pubblico ministero dott. Mariano Buccoliero, ha riferito che : ”A quasi tre anni dal sequestro degli impianti, se si facesse un controllo nelle famigerate cokerie, la situazione non sarebbe dissimile”.

Ecco la dimostrazione tangibile che a nulla sono serviti i provvedimenti giudiziari e tanti decreti, uno di seguito all’altro.

E il paziente in cura decreto, come sta? Come stanno le 4000 piccole e medie imprese, autotrasportatori e indotto, che non sono solo a Taranto (per esempio 1500 ce ne sono in Lombardia) e che rischiano il fallimento o che hanno già chiuso, visto che vantano un miliardo di crediti. Non vengono pagate da otto mesi e pur volendo non possono più assicurare il loro servizio.

Gli autotrasportatori per esempio non possono più mantenere le bisarche o comprare il gasolio. Questi devono essere pagati e basta ! Ed invece il senatore Salvatore Tomaselli, e l’ onorevole Pelillo, sono tronfi per il decreto passato alla Camera. Quest’ultimo ha anche affermato che “gli autotrasportatori non hanno ragione di preoccuparsi e di ostacolare l’attività produttiva dell’azienda”. Sembra di sentire lo “stai sereno” di Renzi, i due sembrano essere perfettamente allineati al loro segretario di partito.

Ma come si fa a non capire che gli autotrasportatori non vogliono ostacolare l’attività produttiva dell’azienda, anzi vogliono lavorare, ma non possono riprendere la loro attività per mancanza di soldi e continuano a sacrificarsi con il loro presidio alla portineria C dello stabilimento? E diciamo di più, non è vile, il lasciare minimamente intendere che se un domani l’attività produttiva dell’Ilva dovesse terminare è colpa degli autotrasportatori?

Se è indispensabile per l’attività dell’azienda che le materie prime arrivino in azienda e che i prodotti finiti escano dall’azienda, bisogna pagare prima di tutto e subito gli autotrasportatori.

Anche il torinese Marco Gay, presidente nazionale di Confindustria Giovani Imprenditori, venuto a Bari qualche giorno fa per il Consiglio Centrale, in occasione del raduno nazionale, tra le tante cose dette, ha riferito: “Io non credo che vi sia differenza tra l’Ilva e l’indotto, bisogna essere molto obiettivi, oggi l’Ilva può continuare a produrre perché ha un indotto che la sostiene e che si sacrifica, domani questo indotto deve continuare ad esistere”.

A Bari era presente anche il presidente di Confindustria Taranto, Vincenzo Cesareo ed anche lui ha fatto notare che “L’importante è non far patire l’indotto che non abbia a soffrire per le conseguenze di quello che è avvenuto nel passato. Confidiamo sul fatto che gli emendamenti che sono stati apportati, vadano in quella direzione e di aprire una partita con i commissari e con i giudici affinché l’indotto venga penalizzato il meno possibile”.

Taranto continua ad essere – ha concluso il Presidente dei Giovani Imprenditori di Taranto Luigi de Francesco – il collettore di tutte le contraddizioni che appartengono al sistema Paese. Qui, assieme alla fabbrica dell’acciaio, convivono un arsenale che è fra i più prestigiosi d’Italia, uno scalo portuale competitivo, la più grande base navale del Mediterraneo. Il nostro auspicio è che dal nuovo corso che si aprirà sulla vicenda Ilva si possa ripartire davvero per finalizzare potenzialità e risorse alla costruzione di un progetto di sviluppo che veda anche i giovani protagonisti”.

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