Leonida di Taranto
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Il Novecento letterario italiano conosce diverse letture. Lo scavo poetico diventa interpretazione ma anche metafora delle immagini di un linguaggio poetico che ha assorbito testimonianze e retaggi, dimensione filosofiche e poetiche del secolo precedente.

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Tra i poeti di mezzo vi è Eugenio Montale. Un poeta e un profilo di poesia tracciato su una linea che ha marcato gran parte del Novecento italiano. Una presenza costante. Da Ossi di seppia del 1925 a Quaderno di quattro anni del 1977 e Altri versi del 1981.
Una vita disegnata sulla corda del verso. Indubbiamente ci sono diverse fasi e stagioni che hanno contrassegnato l’iter poetico di Montale. E ci sono anche separazioni espressive che si sono intrecciate tra un recitare basso e un canto armonico. Un verso, comunque, sempre calibrato. Quasi “ragionato” o meglio quasi “razionalizzato” che ha avuto un percorso graduale.
Ci sono alcune poesie che restano nella storia.
È complesso introdursi in un discorso del genere. Ma non tutto Montale ha una sua completa elevazione. Il segreto della poesia, d’altronde, sta proprio in un altalenarsi di echi e di verseggiare. Montale ha regalato una forte poesia con un sicuro impegno letterario e con una forma di letteratura che ha risentito enormemente di quel tardo Ottocento che poi ha aperto le porte a ciò che, in parte, è stato definito primo Ermetismo. D’altronde scrive sulla rivista “Primato” di Giuseppe Bottai un intervento sottolineando la sua visione sull’“ermetismo”.

In Montale c’è il Mal giocondo di Pirandello, nonostante, egli dice, non amasse lo scrittore siciliano. Ci sono Pascoli (nella sua compostezza metrica del verso) e c’è la grande visione dannunziana che misura con stentato desiderio. Montale non gradiva gli “ismi”.Egli stesso è stato un iniziatore sulla scia della rottura che si era già creata, sia in termini stilistici che poetici, con una poesia cardarelliana. Ma il Novecento nasce sotto il vocabolario di Cardarelli e la dimensione alcyonica. Montale a D’Annunzio deve molto. In Ungaretti c’è la metafora della dissolvenza.
C’è in Montale un ondulare variegato tra il tempo e la perdita del tempo. Ovvero la dilatazione tra tempo e spazio non conosce la malinconia della durata. Conosce, invece, la preoccupazione dell’attesa. Che è cosa ben diversa di ciò che in Cardarelli potrebbe essere definita nostalgia. In realtà in Montale manca l’impatto ardente della nostalgia (come è ben riscontrabile in poeti come D’Annunzio, Quasimodo, Ungaretti, Pirandello). Il dolore di Montale è sempre razionale. Non è quello ungarettiano e il male di vivere non è altro che la metafora del mal giocondo pirandelliano.C’è invece il ricordo. Una memoria sottile i cui tasselli sono ricordi di estrema omogeneità stilistica.
Si pensi alla poesia:

“Antico, sono ubriacato dalla voce /ch’esce dalle tue bocche quando si schiudono/ come verdi campane e si ributtano/ indietro e si disciolgono. / La casa delle mie estati lontane/ t’era accanto, lo sai,/ l’ha nel paese dove il sole cuoce/e si annuvolano l’aria le zanzare/. Come allora oggi in tua presenza impietro/ mare, non più degno/ mi credo del solenne ammonimento/ del tuo respiro. Tu m’hai detto prima/ che il piccino fermento/del mio cuore non era che un momento/ del tuo; che mi era in fondo/ la tua legge rischiosa: essere vasto e diverso/e insieme fisso/ e svuotarmi così d’ogni lordura/ come tu fai che sbatti le sponde/ tra sugheri alghe asterie / le inutile macerie del tuo abisso”.

È una poesia di “Mediterraneo” di Ossi di seppia. In molte poesie di Montale si nota uno sdoppiamento tra la prima e la seconda parte. Ovvero si avverte un interscambiabile messaggio che va dal poetico all’esistenziale al civile. Il poeta non è soltanto un insieme di sensazioni e di emozioni. È sostanzialmente un incrocio di temi. In Le occasioni del 1939 l’attesa (che è sempre priva di nostalgia) ha una sensazione di perdita (e anche i sconfitta se si vuole). C’è la certezza della perdita. E in questa certezza non c’è la speranza di un ritorno. D’altronde mancando la nostalgia (come elemento vivificante di una poetica del ritorno) manca la speranza.

“Lo sai: debbo riperderti e non posso/ Come un tiro aggiustato mi sommuovo/ogni opera, ogni grido e anche lo spiro/salino che straripa/dai moli e fa l’oscura primavera di Sottoripa. Paese di ferrame e alberature a selva nella polvere del vespro. Un ronzìo lungo viene dall’aperto, strazia com’unghia ai vetri. Cerco il segno smarrito, il pegno solo ch’ebbi in grazia da te. E l’inferno è certo.”

La poesia di Montale “ricalca” le immagini. Nelle immagini ciò che ha luogo è il paesaggio. È una poesia del paesaggio. Il paesaggio si ricerca nella natura. Non mancano le descrizioni. Montale è un conoscitore dei paesaggi e li vive interiorizzandoli. C’è l’attacco della poesia: “Due nel crepuscolo” da La bufera e altro del 1956 che recita:

“Fluisce fra te e me sul belvedere un chiarore subacqueo che deforma col profilo dei colli anche il tuo viso”.

È un incontro che viene filtrato dalle luce e dal paesaggio. Il contesto, in realtà, è l’atmosfera paesaggistica. È un quadretto singolare. Il quadro dentro il quadro. L’uomo e la natura. O meglio l’umano nella natura trova una sua sublime capacità evocativa. L’evoluzione appunto in Montale è un incipit fondamentale. Non andrà, però, oltre Pirandello e oltre D’Annunzio.
In questa evocazione la memoria come nostalgia non trova spazio. Ma non trova spazio né un viatico mitico né tanto meno un approccio sacrale (nonostante alcuni tentativi).
Così recita Montale:

“Vivere di memorie non posso più” in Satura del 1971. E perché questo? Lo spiega in un verso di un’altra poesia della stessa raccolta” Avevamo studiato per l’aldilà/un fischio, un segno di riconoscimento./ Mi provo a modularlo nella speranza/ che tutti siamo già morti senza saperlo”.

È piuttosto una sfida. Ma siamo in pieno clima laico e, nonostante la possibilità di riprendere il segno della speranza, ironizza con i versi di “Fanfare” in cui giustamente si nota come, fermo il principio della felicità, la poesia di Montale “sia una poesia d’inappartenenza”.
Pirandello e D’Annunzio sono eredità dell’appartenenza. Di una in appartenenza che ha consapevolezza di ciò che accade intorno. E quel che accade serva come metro di misura per una intera comunità. Da questo punto di vista la poesia di Montale è dentro i fatti. O forse è dentro la storia. Ma a quale storia bisogna riferirsi?
In una poesia dal titolo “Fine del 68” sempre di Satura si ascolta:

“Tra poche ore sarà notte e l’anno/ finirà tra esplosioni di spumanti/ e di petardi. Forse di bombe o peggio, ma non qui dove sto. Se uno muore/ non importa a nessuno purché sia sconosciuto e lontano”.

Questo distacco è poetico certamente, ma è soprattutto esistenziale. Il poeta e l’uomo, comunque, si raccontano lungo la pagina. Il più delle volte Montale vuole essere il critico di se stesso, senza riuscirci. Con un gioco di metafora, in cui tira in ballo ancora la natura, Montale recita: “Il tu”.

“I critici ripetono/ da me depistati/ che il mio tu è un istituto./ Senza questa mia colpa avrebbero saputo/ che in me i tanti sono uno anche se appaiono/moltiplicati dagli specchi. Il male/ è che l’uccello preso nel paretaio/ non sa se lui sia lui o uno dei troppi/ suoi duplicati”.

In Diario del 1972 l’approccio mitico sembra una riconversione del tempo storia verso il tempo memoria. Ma è un approccio soltanto. Nella poesia dal titolo “I visitatori” c’è un atteggiamento di recupero del “ritorno”. Questo ritorno è sì un sogno. Ma un sogno che, pur portando sulle tracce di un passato antico, si dissolve quando i segni che si possono rintracciare sono scritti “nell’anagrafe”.
Il tempo non è scritto nel calendario. Il tempo che conta. Il tempo che ha anima, il tempo che è memoria e nostalgia. Resta scritto nell’anagrafe appunto perché Montale non conosce la nostalgia, non conosce quella nostalgia che si fa mito, magia, mistero, archetipo. Parla degli Dei con stanchezza e forse anche con sarcasmo.
Non riconosce quest’ansia del mistero pur vivendo il sentiero dell’evocazione.
Così in Altri versi (1981):

“Pare evidente che i Numi/cominciano a essere stanchi dei presunti/loro figli o pupilli/ Anche più chiaro che Dei o semi dei/ si siano a loro volta licenziati/ dai loro padroni, se mai n’ebbero./ Ma…”.

Questa durezza la si avverte anche nelle ultime sue poesie. Una durezza che rende il canto più rigoroso usando un linguaggio piuttosto rimosso e scheletrico, ma sempre incisivo. Qui cerca la dissolvenza dannunziana ma non ci riesce.
Ecco una delle sottolineature più marcate:

“Può darsi che sia ora di tirare/ i remi in barca per il noioso evento./ Ma perché fu sprecato tanto tempo/ quando era prevedibile il risultato?”.

Una chiusura tragica che fa della poesia un tocco più esaltante ma anche sul piano esistenziale esprime un radicale dolore. Il tempo dell’attesa si trasforma nel superamento stesso dell’attesa.

“La verità è nelle nostre mani/ ma è inafferrabile e sguiscia come un’anguilla./ Neppure i morti l’hanno mai compresa/ per non ricadere tra i viventi, là/ dove tutto è difficile, tutto è inutile”.

Siamo al raggiungimento di un epilogo in cui ancora il tempo diventa il solo punto di contatto ma si prende coscienza, recita Montale, che non esistono “tempi corti” e “sembra anche ridicolo parlare/ di vivi e morti”.
Indubbiamente Montale ha percorso i solchi della letteratura del Novecento italiano. L’ha percorsa su strade che si incrociano ma anche su binari. L’eleganza del suo verso, in poche occasioni, è una testimonianza alla quale si lega un pubblico generazionale sia sul piano critico che storico.
La certezza del dubbio ha dominato la sua pagina e, pur radicata in una formazione culturale (e a volte espressiva) tardo novecentesca, ha segnato un itinerario nel Novecento poetico della memoria razionale.
Certo, non appartiene ai poeti del ritorno, pur vivendo quella poesia del viaggio che ha caratterizzato l’eredità della contemporaneità.

Montale cattura l’Ottocento finale e lo dissolve, ma resta legato profondamente ad un Decadentismo smarrito tra Crepuscolarismo ed Esistenzialismo. Resta stretto tra Pirandello, D’Annunzio e Cardarelli.
La sua poesia è una linea. Ungaretti una dimensione.

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