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Che pazzia vi ha sconvolto la mente…” (Ovidio). Dunque. Pirandello recupera da Ovidio il passaggio ancestrale delle “metamorfosi” metaforizzandolo nei personaggi che recitano sotto lo specchio della luna.

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La luna è uno degli incisi alchemico – simbolici che si lega quasi sempre alla cultura del cerchio e a una danza che ha il senso dell’antico ritorno.
Tutto il mondo latino è in Pirandello. Ma si tratta di una cultura latina che ha intrecciato la maschera greca e quella troiana. L’occidente latino in Pirandello non si regge da solo. Filtra la recita greca e in particolare omerica ma ancora di più riesce ad assorbire la griglia mitica virgiliana.
Virgilio e Omero sono capisaldi in Pirandello. Ma in Virgilio recupera Anche un Oriente che non è solo Mediterraneo ma Adriatico e balcanico. Il canto pirandelliano infatti è un intercalare di suoni tra gli Orienti turchi di Troia e la melanconia ellade. Insomma la luna che resta riferimento è il musicare metafisico delle fiamme troiane e l’essere “nessuno” omerico. Si serve però del filtro ovidiano che è trasformazione. La metamorfosi è il teatro dello sdoppiamento in Pirandello. Resta tale sino a congiungere la sintesi delle maschere con il vedersi in uno specchio.
Omero e Virgilio sono filtri decisamente incavarmi tra Occidente e Oriente. Una geografia comunque parziale intrecciare ai temi del viaggio della solitudine dell’isola della fuga. La fuga non è uno stereotipo. È la metafora che occupa il centro di Enea e di Ulisse. Entrambi viaggiano e fuggono.
Il sentimento dell’esilio che resta forte in Pirandello è uno scavo che si ascolta dall’ultimo Ovidio. L’esilio è vivere il desiderio di una terra la cui distanza si misura con la intensità della nostalgia. In Ulisse ci sono i trionfi del nostos e della permanenza.

Nelle “Metamorfosi” ovidiano c’è la trasfigurazione: “L’estro mi spinge a narrare di forme mutate in corpi nuovi./Oh dèi (anche queste trasformazioni furono pure opera vostra)”. In Pirandello prende corpus la trasfigurazione ovidiana. I suoi personaggi nascono all’interno di un costante modello ovidiano in cui trasfigurarsi è recitare in un palcoscenico dove le maschere non sono strutture precostituite. Plauto è distante. Come è distante Goldoni. Il copione della improvvisazione campeggia sulla scena. Si pensi al “Berretto a sonagli”.
Ovidio: “Nacque l’uomo, o fatto con divina semenza da quel grande artefice,principio di un mondo migliore, o plasmato dal figlio di Giapeto [Prometeo] a immagine degli dèi che tutto regolano, impastando con acqua piovana la terra ancora recente, la quale, da poco separata dall’alto ètere, ancora conservava qualche germe del cieloinsieme a cui era nata”.

Sembra la ricerca inquieta di Mattia Pascal, ovvero di un personaggio che non ha trovato ancora il suo destino – personaggio (Ovidio: “„Bene visse chi seppe vivere nell’oscurità”).
Nel tempo della contemporaneità l’incontro avviene con Scarpetta del “Miseria e nobiltà ” e soprattutto con il teatro napoletano orientaleggiante di Totò. Anche se in Pirandello su vivono le contraddizioni di Tolstoj del “Guerra e pace” di “La battaglia la vince colui che ha deciso fermamente di vincerla” o di “Si deve credere nella possibilità della felicità per essere felici”.

Dunque. Uno dei legami importanti vissuti da Pirandello è quello con Scarpetta. I figli di Scarpetta i tre De Filippo, senza Pirandello, non sarebbero esistiti. “Miseria e nobiltà” è stata resa grande da Totò, il quale però ha sempre cambiato il copione e che Pirandello ha scritto e riscritto sulla scena. Scarpetta proviene da Goldoni che a sua volta ha tramato con i testi di Plauto traducendo l’ironico in veneziano. Scarpetta e Scarfoglio sono un inciso anche di Salvatore Di Giacomo. Ma è Sofocle che si innerva in Pirandello. C’è una via dell’Oriente nell’Ovidio che vive in Pirandello: “Sarai più sicuro tenendo la via di mezzo”.

In un immaginario dialogo tra Pirandello e Marta Abba si innesca questo colloquiare.
Luigi: “Sei stata la giovinezza e la parola. La danza e la recita. Il canto e li sguardo… Non sei greca”.
Marta: “Porto l’Occidente negli occhi. Lo sono ancora. Resterò come nuvola o ombra. Come vento e tempesta”.
Luigi: “Tutto si trasforma. Non ho più personaggi. Io sono il personaggio di me stesso. E ti aspetto come se fossi in uno spazio chiamato Agorà”.
Marta: “Sono la danza e il tuo canto. Non ho maschere. Il mio volto è quello che si specchia nei tuoi occhi. Intrecciamo tra nelle tue predestinazioni. Mio maestro”. E ancora:
Marta: “Tu resti quell’Odisseo perso nella terra di Nessuno osserva nel chiaro di notte il sublime”.
Luigi: “Oh morte immensa. Scivoli nell’umido tepore tra le mie carni. Sei vita! “. Marta: “Una tigre di carta aggredisce il vento. Ho la malinconia dell’inutile oltre il canto”.
Luigi: “Non lasciarti sfuggire il ricordo. Ho vissuto nella terra del mito e tu sei dea oltre il teatro”.
E poi: Luigi a Marta: “Sei recita ed evidenza. Ti vivo. In silenzio. Per non perdere l’ombra che di te ho. Poi sarà un’altra vita. Vuoi scommettere una sconfitta e una vittoria? Se non avrò risposta non comprenderò. Se risposta avrò tra il tempo di mezzo e la luna spezzata ti cercherò. Inventa. Una finzione. Un gioco. O una melodia. Non starò ad aspettarti. Ti vivrò nella mia attesa. Tu di me. Ti leggerò il mio Ovidio. L’arte d’amare è una metamorfosi?”.

Si ritorna ad Ovidio. Ma il teatro è tutto ciò che il personaggio che si ha dentro non è riuscito ad esprimere? Forse per Pirandello è così? Se mi/mi/ci pare? Nel caos di Pirandello vive la metamorfosi del caos primigenio di Ovidio. In entrambi, tra geografi del luogo che diventa metafisica e metafisica che avanza un segno allegorico insiste, appunto, il caos primigenio del mondo.
Ancora l’Ovidio che si può trovare anche in Pirandello: “…vinto dal dolore, da quella serie di sciagure e dai tanti prodigi che ha visto, … parte dalla sua città, come se la maledizione gravasse sul luogo invece che su di lui…”.

I miti, i simboli, gli archetipi, la figura di Enea, l’amore proibito, il legame tra creazione, distruzione e rinascita, il tragico, la rappresentazione dell’uomo e il tutto nello specchio della maschera. Un percorso tra letteratura e filosofia.
Così Pirandello incontra Ovidio (“Noi pure fiorimmo un giorno, ma quel fiore presto appassì, e la nostra fu fiamma di stoppa, fuoco passeggero”, siamo al all’uomo con il fiore in bocca…?) e non si distacca sino a quando verrà graffiato da un concetto che caratterizzerà il suo tragico senso: “Molte sono le cose incredibili, ma nessuna è più incredibile dell’uomo” (Sofocle) o fino a quando non sosterrà con Eschilo: “Molti degli uomini preferiscono l’apparenza più che l’essenza, scostandosi dal giusto”.
Ma è Ovidio che recide e ricuce: “La coscienza retta si ride delle bugie della fama (ossia delle mendaci ciarle del pubblico)”. È qui il dopo: “…Scorre nascostamente e sparisce il fuggevole tempo…”.

Ovidio e Sofocle sono un vissuto nel tragico e nella “ars” della commedia che diventa singolarità. Ma Euripide? Pirandello lo ha già superato dopo aver attraversato: “La verità ha un linguaggio semplice e non bisogna complicarlo” perché i personaggi pirandelliano hanno subito assorbito che “Chi dice ciò che vuole deve aspettarsi in risposta ciò che non vuole”. Con Ovidio giunge alle conclusioni che “…tanta è l’arte, che l’arte non si vede…”.

Pirandello è sempre nella impossibilità di ricondurlo su un sistema critico. Anche per questo il suo pensare e il suo linguaggio sono il mistero della magia.

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