Leonida di Taranto
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Non ho mai amato Benedetto Croce. Perché non amo l’ipocrisia e l’incoerenza culturale. Continuo a non farmi condizionare da Croce perché non considero Croce uno storico della letteratura e tanto meno un critico letterario.

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Mi chiedo! Perché Benedetto Croce (1866 – 1952) rifiutò in modo categorico i percorsi che la letteratura del Novecento (quella a lui contemporanea per capirci meglio) tracciava nel corso di una ricerca che intrecciava autori, movimenti e modelli artistici ed esistenziali? Croce non allontanò le sue riflessioni (ovvero non prese le distanze in termini di valutazione critica, anzi diede dei giudizi abbastanza pesanti e quindi ne parlò con riferimenti chiaramente dovuti ad una analisi costruita attraverso parametri critici) dai poeti e scrittori dannunziani e post dannunziani. Intraprese una vera e propria battaglia di condanna nei confronti di tutto ciò che era contemporaneo.

In uno scritto del 1945 giustificò, in parte, il suo atteggiamento sostenendo: “A me (mi si voglia perdonare questo accenno personale), quantunque della letteratura ora contemporanea dei giovani non mi sia potuto tenere così pienamente informato come ero di quella dei miei anni giovanili, alla quale sono stato perciò in grado di dedicare sei volumi, è accaduto per questa, e talvolta per l’altra, non solo di esercitare la cosiddetta severità che altri non esercita, ma di contribuire a far rendere giustizia a ingegni e ad opere sincere; e se la soddisfazione intellettuale da me provata nel primo caso è stata veneta di dispiacere per aver dovuto recare dolore a uomini degni, come erano il Pascoli e il Fogazzaro, quella del secondo caso mi sta sempre dolce nel ricordo” (in L’avversione della letteratura contemporanea”).

Credo che questa sollecitazione del Croce non abbia una reale giustificazione soprattutto se si pensa ai suoi scritti su D’Annunzio, sui poeti francesi, su Leopardi, su Fogazzaro, su Pascoli, su Proust, su Rilke. Croce condanna tutto ciò che è contemporaneo e lo fa non per mancanza di conoscenza o perché gli mancano le comparazioni critiche ma perché la sua formazione letteraria è talmente datata da comprimerlo in quelle epoche che ha avuto modo di comprendere non sul piano storico ma umano. Non capisco il tanto inchinarsi ancora nei confronti di Croce? Il tanto proselitismo su un critico che non ha mai fatto critica del testo ma ha insegnato a come non leggere il testo. Nella storia della critica italiana c’è la doppiezza del pensiero. Ovvero si elogia Pascoli nel momento in cui si osanna Croce. Non solo contraddizione nella critica Italia ma anche ignoranza.

Per Croce lo studio dei contemporanei è un limite. Ma non da poco. Si ferma a Carducci. Pascoli, D’Annunzio e Fogazzaro secondo il Croce sono incomprensibili e dal momento che sono tali secondo la sua visione sono autori da non prendere in considerazione. Nel 1907 in La letteratura della nuova Italia Croce sottolinea: “Nel passare da Giosue Carducci a questi tre, sembra, a volte, come di passare da un uomo sano a tre malati di nervi. Artisti, senza dubbio, che hanno scritto i loro nomi nelle pagine della nostra storia letteraria italiana. ma temo lo abbiano scritti anche in modo meno glorioso in quelli della nostra storia civile, la quale dovrà spesso ricondurli come insigni documento del presente vuoto spirituale”.
Quei tre sarebbero, appunto, Pascoli, D’Annunzio e Fogazzaro. Sarebbe stato interessante, invece, studiare proprio quei tre grazie ad una analisi estetica di cui Croce resta un maestro ma la sua difficoltà di conoscenza non ha permesso di valorizzare “crocianamente” proprio quel passaggio che è fondamentale tra il tardo Romanticismo e il Decadentismo.
Tutto ciò che era decadente era spazzatura secondo Croce. Una visione parziale ma anche faziosa in termini letterari se si pensa che il Decadentismo è stata l’epoca che ha tracciato percorsi per tutti quegli autori che vanno cronologicamente oltre D’Annunzio. Tutto ciò che è contemporaneo è ciarpame. Me sembra poco oggettivo un processo del genere. Eppure Croce aveva inquadrato il “suo” Novecento attraverso questa ottica.

Ci sono contraddizioni di fondo in quella temperie che ha caratterizzato i primi trent’anni del Novecento. Ma l’Estetica (1902) doveva avere una funzione proprio di sdoganamento rispetto alle poetiche precedenti, invece è servita ad offuscare persino la tradizione che si innovava nei decenni successivi.
La distinzione tra poesia e non poesia avrebbe avuto un senso particolare applicandola al Novecento. La poesia di Dante (1921), Poesia e non poesia (1923) e La poesia (1936) sono tre testi basilari che teorizzano una poetica ed elaborano il rapporto tra letteratura e poesia.
La poesia come intuizione del particolare è individuale nel “momento” dello spirito e si fa universalità in una dimensione cosmica. In fondo, Croce ha ragione in questo, l’arte è un “individuum ineffabile”. L’Estetica è un forte riferimento di rottura. Con questo testo si collassa quella visione storicistica di matrice positivistica.
Ma la metodologia estetica va oltre queste stessi correnti e avrebbe trovato una chiave di interpretazione significativa proprio nello studio della poesia Ermetica. E’ qui che subentra la funzione di uno studioso come Carlo Bo che teorizza soltanto due anni dopo La poesia di Croce la sua esistenziale poetica con “Letteratura come vita”, saggio apparso sulla rivista “Il frontespizio”. “Letteratura come vita” è un manifesto crociano sul piano estetico ma è anticrociano nella interpretazione del Novecento.

Già Renato Serra pur partendo da un riferimento comune qual è stato Carducci si allontana dalla posizione di Croce recuperando il gusto nel contemporaneo rendendosi consapevole che il carduccianesimo era ormai al tramonto e non era, per i tempi moderni, più riproponibile.
Era Renato Serra che non tralasciava queste affermazioni: “Una storia come composizione razionale e soddisfacente non esiste. Lacrime e sangue: ogni goccia caduta è per sé solo l’universo”. Carlo Bo, invece, recupera tutto ciò che è decadente e affida alla poesia “nuova” il messaggio poetico e lirico del Novecento proprio a cominciare dai poeti francesi tanto bistrattati da Croce. Il Decadentismo come “malattia morale” secondo Croce. Ma Bo parte proprio da questa “malattia” per comprendere una civiltà poetica che segnerà tutto un secolo. Carducci era finito. Di questo Croce non se ne rende conto e non si rende conto della esplosione della poetica dell’inconscio che diventerà d’ora in sempre imponente all’interno della temperie letteraria.
Per Croce Rimbaud è addirittura la “negazione della poesia”. In D’Annunzio, secondo Croce, c’è “la morte nel contenuto morale” (in Letteratura della nuova Italia,
4° vol., 1911 – 1915). E in uno scritto del 1947 si legge: “D’Annunzio… è un’anima tanto più scarsa d’idealità quanto più si è sforzato, in rinnovate riprese, d’infingere affetti politici, patriottici, sociali, morali, e una sua missione di rivelatore e redentore…”. Su Verlaine nel 1942 Croce annotava: “… Sono versi accanto a ciascuno dei quali si può scrivere la parola ‘falso’; sono ciurmerie che offendono ciascuno di noi…”. Su Rilke nel 1943: “…la vita attiva e morale di Rilke fu, per pronunziare anche qui la parola giusta, molto grama… egli combatte dentro di sé unicamente col fantasma della morte”.

E’ come se ci fosse un pregiudizio su tutto ciò che è contemporaneo perché irrazionale. Ma molta poesia contemporanea ha alla base una profonda religiosità. Si pensi a Rebora, si pensi allo stesso Fogazzaro in narrativa, si pensi ad Ungaretti.
Il suo pregiudizio è notevole tanto da scrivere nel 1950: “Questa cattiva poesia, o piuttosto pseudopoesia, è la manifestazione letteraria dell’irrazionalismo, della mancanza di ogni guida in una fede religiosa, di ogni fiducia nella libertà, della tendenza all’istupidimento, alla animalità e bestialità e, insomma, alla disumanità, che travaglia il mondo intero e che ha celebrato la sua orgia sanguinosa nell’ultima guerra e freme e divampa tuttora nella cosiddetta pace, e perciò, ritrovandone gli effetti anche nella sfera dell’arte, io la aborro. E se in ciò traveggo, mi si voglia indulgenza perché il mio errore è effetto di amore e di dolore” (in Letture di poeti e riflessioni sulla teoria e la critica della poesia).
Un Croce, dunque, che non sa confrontarsi (o non vuole) con la letteratura moderna. Enzo Mandruzzato dice che Croce “era nato presto… per la poesia nuova, tardissimo per il suo impegno di fare guerra al secolo…” (in Il piacere della letteratura, 1996). Gianfranco Contini ne La letteratura italiana Otto – Novecento (1974): “Il limite del Croce è, per la poesia, Baudelaire in Francia, Carducci in Italia: tutto il resto è rifiutato sotto nome di decadentismo, rivelando, al lume le integrazioni alla prima Estetica, il fondamento moralistico (estetismo e sensualismo) della condanna”.

Importanti restano le sue riflessioni critiche sulla poesia popolare, sul rapporto tra poesia e contenuto, sul dialogo tra poesia e immaginazione, sull’incontro tra poesia e mistero, sulla capacità di sintesi tra poesia e simbolo. Elementi che rimandano a modelli già definiti nel quadro della letteratura dei secoli precedenti. Il Novecento letterario è, per Croce, un secolo inesplorato.
Oggi le sue tesi (estetiche e letterarie) sono delle premesse che vanno chiaramente riconsiderate ma manca da parte di Croce un approccio metodologico alla letteratura contemporanea. Questa mancanza di metodologia ce lo rende chiaramente inattuale e non dal punto di vista ideologico ma proprio per mancanza di argomenti letterari su una base scientifica, i quali non ci permettono di attraversarlo fino in fondo.

Le sue posizioni su alcuni poeti e scrittori sono piuttosto delle battute, delle”ostilità” direbbe Prezzolini, e restano lontane da una visione storica. La sua Estetica, se non ci fosse stata quella preconcetta faziosità verso il contemporaneo, sarebbe stata la base per interagire tra modelli decadenti e quello straordinario dibattito sviluppatosi intorno a riviste come “Il Frontespizio”. Andare oltre è inutile. Croce non fa parte della mia biblioteca.

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