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Taranto appare oggi, ancora più di ieri, una città che sembra non aver deciso cosa farà da grande.

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Aldilà di sterili proclami – destinati ad amplificarsi all’avvicinarsi delle prossime scadenze elettorali – e velleitari progetti in cui sempre più concreto appare il rischio che il volere un meglio quasi utopico comprometta la possibilità di avere un bene che potrebbe essere a portata di mano, il capoluogo ionico, che un tempo poteva vantarsi di essere la terza città più popolosa del Sud Italia peninsulare, appare ferma al palo, tramortita e sorpresa dallo sprint dei suoi competitori, impegnati in una corsa in cui non sono concesse rivincite e manche di recupero.

A voler citare esempi non c’è che l’imbarazzo della scelta: si può prendere in esame lo stato dei trasporti pubblici, con il desolante panorama di ferrovie e aeroporto; si può analizzare la condizione delle istituzioni come Autorità Portuale o Soprintendenza Archeologica; si può recitare il peana giaculatorio che inanella il Palazzo degli Uffici al Distripark passando per molo polisettoriale e porto turistico, e via dicendo. Diciamolo subito, non esiste un Dio cinico e crudele che ha deciso di accanirsi contro Taranto, la città è artefice del proprio destino e basterebbe guardarsi attorno, se non in direzione di Bari o Lecce, quantomeno verso Brindisi per trarre utili suggerimenti o fare umilianti confronti. Le condizioni per fare bene le abbiamo avute e le abbiamo, scontiamo due o tre generazioni ammaliate dalla ricerca del “posto” e non del “lavoro”, prima ai Cantieri Navali, poi all’Arsenale Militare, all’Italsider, all’Alenia; dovunque si potesse aspirare ad uno stipendio più o meno fisso a fronte di un impegno più o meno controllato e parametrato nel rendimento e nell’efficienza. Poi i nodi hanno cominciato ad arrivare al pettine, la storia ha lasciato il passo alla cronaca e si è scoperto che i figli di oggi non potranno avere gli “ammortizzatori” dei padri di ieri. Che fare, oltre che auspicare l’ennesimo Decreto salva qualcosa?

Occorrerebbe rimboccarsi le maniche, guardarsi intorno, prendere contezza delle bellezze ambientali e storiche più uniche che rare che ancora abbiamo e decidersi ad investire su quello che i cinesi non potranno copiare e produrre a basso prezzo, per usare una iperbole consunta ma efficace. Condizione indispensabile – seppur non sufficiente – è uscire dalla sindrome di Pirro, smettere di delegare ad altri il proprio futuro, decidersi a rischiare in proprio, pronti magari a sbagliare ma disposti comunque a ripartire daccapo. Occorre un cambio di mentalità che è al limite del reset completo, occorre smettere di considerare il turista come un pollo da spennare “una tantum” e cominciare a vederlo come una risorsa da coltivare e far crescere, occorre investire facendo passi adeguati alle proprie gambe, più B&B e meno cattedrali nel deserto, più botteghe artigiane e meno elefantiaci stabilimenti, più coraggio e meno rassegnazione. Ciascuno secondo il proprio ruolo, consapevole dei propri ed altrui diritti e doveri, con cittadini ed associazioni capaci di chiedere (pretendere?) dalle istituzioni pubbliche il dovuto impegno, capaci di proporre ad investitori ed istituti di credito progetti credibili e animati dal desideri di crescere piuttosto che dal nemmeno troppo celato obbiettivo del “prendi i soldi e scappa”.

Non sarà facile e non sarà immediato, ma il tempo per cominciare è sempre meno; migliaia, milioni di persone a poche centinaia di chilometri da noi hanno altrettante se non maggiori possibilità, più fame e maggiore determinazione. Se Taranto vuole continuare a vantarsi di avere spirito spartano, sarà il caso che i moderni Falanto si asciughino il volto dalle lacrime di Etra e comincino a mostrarsi all’altezza dei loro avi.

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