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Colui che mente a se stesso e dà ascolto alla propria menzogna arriva al punto di non saper distinguere la verità né dentro se stesso, né intorno a sé e, quindi, perde il rispetto per se stesso e per gli altri”, scrisse Fëdor Michajlovič Dostoevskij.

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Così ne “I demoni”: “La verità reale è sempre inverosimile. Per rendere la verità più verosimile, bisogna assolutamente mescolarvi della menzogna. La gente ha sempre fatto così”.
Può sussistere una politica senza una etica? Andiamo verso un tempo della politica il cui senso va verso la dismisura di ciò che una volta si usava chiamare valori. Valori, ideali, identità. Quali sono i punti di riferimento che attraversa il nostro tempo? Anche i processi economici possono essere identificati come valori o come ideali ma mai come delle identità anche se si muovono su un tessuto prettamente di “cognizione” concreta.
Ci sono domande che non hanno risposte e risposte che si consumano senza alcun ragionamento. Ma la politica deve necessariamente uscir fuori dalla foresta degli slogan perché proprio attraverso la politica si dà “cittadinanza” alle idee, ovvero ad una filosofia delle idee. E queste non sono soltanto elementi nella dimensione dell’etica ma vivono nei riferimenti dell’estetica. La politica deve poter avere una sua estetica proprio attraverso quella cultura che si fa coraggio delle sfide.

Il concetto di cittadinanza, oggi, è una sfida non solo in termini di geografia dell’accoglienza ma anche della spiritualità dell’estetica. Se la politica recupera questo sentiero sul piano della visione della dialettica, dell’umanesimo del confronto, delle tesi di una Europa e un Mediterraneo dentro l’idea dell’inclusione delle culture il rapporto tra la centralità dell’uomo, dei popoli e dello sviluppo articolato può definirsi proprio nell’estetica della cittadinanza come valore prioritario.

La letteratura, in questo caso, offre delle metafore interpretative abbastanza chiarificatrici. Nel 1861 Fëdor Michajlovič Dostoevskij pubblicava “Umiliati e offesi”. Un romanzo che resta come pietra miliare nel tracciato esistenziale che segnerà i processi storici di generazioni che si confronteranno con le culture dell’Europa, delle Russie e con quelle del Mediterraneo. Ed è un romanzo che presenta una capacità culturale straordinaria nella visualizzazione di un passaggio epocale qual è quello dell’Europa ottocentesca che si affaccerà ad una Europa delle lingue sommerse e delle politiche sommerse.
Era l’anno in cui l’Italia praticava la riunificazione degli Stati interni per dar vita ad uno Stato unitario, pur attraverso delle politiche articolate nella misura delle rotture tra quello che è stato il Regno di Napoli e le esuberanze austro – ungariche.
Non si tratta di un romanzo politico ma di un romanzo per la politica.
Oggi si presenta di grande attualità perché pone una riflessione proprio su due concetti chiave che serpeggiano nei modelli della contemporaneità. Non si è soltanto umiliati. Si è anche offesi. E non lo si è per una depressione esistenziale che noi singoli possiamo vivere e le generazioni possono attraversare. Ma lo si è per una improvvisazione della politica che si smuove nelle strutture della società. I personaggi sono comparse e la “misura” dostoievskijana lacera un tessuto che era ricco di valori e che oggi è diventato indecifrabile.

Come è possibile che uno scrittore russo, del secolo passato, possa diventare un punto di riferimento per le nostre inconcludenze che vivono nei processi della decadenza di una Europa, che ha smesso di essere riferimento. E questa Europa ha smesso di essere riferimento perché non ha saputo guardare al Mediterraneo attraverso la consapevolezza della sua storia.
In “Memorie del sottosuolo” graffio queste parole: “L’uomo è fatto così. E tutto ciò per un insulsissimo motivo che apparentemente non varrebbe neppure la pena di menzionare: e cioè perché l’uomo, sempre e ovunque, chiunque fosse, ha amato agire così come voleva, e non come gli ordinavano la ragione e il tornaconto; infatti si può volere anche contro il proprio tornaconto, anzi talvolta decisamente si deve (questa è già una mia idea). La propria voglia, arbitraria e libera, il proprio capriccio, anche il più selvaggio, la propria fantasia, eccitata a volte fino alla follia: tutto ciò è proprio quel vantaggio supremo e tralasciato, che sfugge a qualsiasi classificazione e per colpa del quale tutti i sistemi e le teorie vanno costantemente a farsi benedire”.

Ormai siamo tutti dentro il deserto, che può essere quello dei Tartari, o quello della Libia di Italo Balbo, o quello dei predicatori cristiani o musulmani che viaggiano tra le sabbie dei Mediterranei sommersi. E restiamo nel deserto umiliati e offesi. Ma siamo anche consapevoli che il Palazzo prima o poi crollerà nella sfera di metafore inconfutabili che solo la letteratura può annunciare e decifrare. Quel Palazzo non pasoliniano, reale, ma quello di don Fabrizio dei Gattopardi.
Si sentono assediati i Tartari e sono arrivati sino a Donnafugata ma lì ci si scontra e ci si divide, appunto, tra gattopardi e iene. Si può restare sia umiliati che offesi ma sempre con la testa alta.
La letteratura non è finzione. Ha la capacità di diventare destino. E Dostoevskij lo aveva ben capito. Proprio per questo qualche anno dopo scriverà quei ricordi (o memorie) del sottosuolo. Bisognerebbe conoscere e leggere di più la letteratura. Perché solo così resterebbe comprensibile il kafkiano risvolto politico nel quale ci troviamo a vivere. Perché solo così l concetto dell’intellettuale contro di Leonardo Sciascia oggi potrebbe avere un senso.

Kafka, già. Lo scrittore che ha parlato del “processo” e della “metamorfosi” e si è incontrato con quel Musil che non smette di recitare “l’uomo senza qualità”. Non perdiamo di vista l’immaginario di questi due scrittori. Ci tornerà utile. Lo scrittore è un annunciatore dei tempi che verranno. Bisognerebbe saper leggere tra le pieghe degli scrittori per catturare il gioco dell’imprevisto e del perverso che si agita nel presente. Non perdiamo di vista il “ragionamento” di Leonardo Sciascia e il tentativo di impegno che cercò di innescare nella società italiana dagli anni Sessanta alla fine degli anni Ottanta. Un profeta della modernità nella contemporaneità.
Come abitare la politica senza la cultura? Non siamo farisei e tanto meno giudei. Ma siamo ben dentro la nostra contemporaneità e il “vizio assurdo” è una proposta di lettura che ci spinge verso realtà altre. Cosa è la verità? Cristo guardò Pilato, ma Pilato continua ancora ad interrogarsi.
Nel 1969 Dostoevskij pubblicava “L’idiota”. È il romanzo dei nostri giorni. Forse il meno politico e il più degno per la non cultura della politica. Ma anche il più consono per una politica che se non accetta la sfida delle culture entra inevitabilmente nel gioco dei “delitti e castighi”. Ironia a parte. Metafore incluse.
La cultura è dentro la vita sotterranea dei destini. E le memorie restano sottosuoli. Perché questo incastrare la letteratura a meta giudizi sulla politica? Perché sono convinto che dentro ogni romanzo e dentro ogni scrittore ci sono ferite o pieghe che ci permettono di interpretare quel fondo di chiarezza che è stato espresso da Aristotele e sul quale oggi bisognerebbe riflettere. Ma ogni scrittore ha come principio il valore della cittadinanza non solo come modello di una eredità greco – romana ma come rappresentazione di una contemporaneità.

Il vero dramma è che abbiamo barattato ogni religione da quando abbiamo ucciso il vero Dio, o da quando abbiamo affidato la parola di Cristo al cattolicesimo. Vivo intensamente ciò che scrisse Dostoevskij : “L’ateismo si limita a predicare il nulla; il Cattolicesimo va oltre, e predica un Cristo travisato, un Cristo calunniato e oltraggiato, un Cristo che è l’antitesi del Figlio di Dio. Il Cattolicesimo predica l’Anticristo, ve lo assicuro, ve lo giuro! Questa è la mia opinione personale e io so quanto ho sofferto nel rendermene conto! Il Cattolicesimo romano crede e proclama che, senza un potere temporale capace di abbracciare tutta la terra, la Chiesa non possa sussistere… Non possumus! No, il Cattolicesimo romano non è una religione, è la continuazione dell’Impero Romano d’Occidente. Nel Cattolicesimo, infatti, tutto è subordinato a questa idea. Il Papa si è impadronito della terra, ha occupato un trono terrestre, ha impugnato la spada e si è circondato di un seguito composto da menzogne, intrighi, imposture, fanatismi, superstizioni e scelleratezze. Nelle mani della Chiesa di Roma, i più sacri, i più ingenui e i più giusti sentimenti popolari sono diventati delle ari. Roma ha fatto tutto questo per denaro, con il solo scopo di consolidare il suo dominio terreno. E che cos’è questa se non la dottrina dell’Anticristo?”.

Abbiamo bisogno, sostanzialmente, di sconfiggere le solitudini che aggrediscono il nostro essere e il nostro tempo e queste solitudini, che sono manifestazioni che si presentano costantemente nel quotidiano, si mostrano nel battito delle ansie e delle paure che agitano la vita di ognuno di noi e la prospettiva delle storie generazionali.
Siamo ormai in bilico o ci raffiguriamo come abitanti di un labirinto. In bilico perché ondeggiamo lungo la corda di un perduto equilibrio. Nel labirinto perché non siamo ancora riusciti a intravedere un bagliore di luce che potrebbe portarci oltre. Ci resta il rischio e il coraggio della sfida. Avremo la forza di rischiare e di anteporre ogni scelta individuale al resto? Ma certo tutto ruota intorno ad una metafora.
La stessa politica, con i suoi radicamenti, si mostra come una eterna metafora se l’uso stesso del termine lo si riporta però ad una visione dell’estetica filosofica. Ciò che non è metafora può passare sotto la voce di arcipelago. Ma mai di isola. L’isola appartiene al simbolo omerico – ulissistico ed entreremmo così nel campo del mito. Tutto può essere, la politica, tranne che un mito.

Allora resta la visione dell’arcipelago. Forse in astratto. Ma è ciò che definiamo astratto che offre al contenitore un’anima. Cosa ci salverà? Diceva ancora Dostoevskij che “La bellezza salverà il mondo” in quel suo romanzo “L’idiota” ma sosteneva anche che “E’ difficile giudicare la bellezza; non vi sono ancora preparato: la bellezza è un enigma”.
Siamo distanti da ciò o forse neppure siamo preparati ad affrontare ciò. Aspettiamo che l’alba precipiti nel mare e che il tramonto finisca dietro i monti. Il resto si vedrà. Ma se non siamo noi a cominciare da questo “resta” ogni fatica sarà stata inutile ed è inutile continuare a lamentarsi.
Dobbiamo rischiare. E dobbiamo fare in modo che l’oblìo non ci appartenga più. Una politica senza cultura è uno sguardo senza anima. Diamo un senso a questo orizzonte. O diamo un orizzonte al senso che vorremmo vivere o al senso che vorremmo che ci fosse dentro di noi e non solo, dentro questo tempo che ci appartiene. Purtroppo viviamo un tempo senza cultura e senza il rispetto per le identità. La solitudine ci salverà e l’omicidio antropologico della civiltà sta diventando su suicidio lento che riguarderà gli uomini in quella tradizione filosofica che ha visto dialogare Occidente ed Oriente.

Restiamo umiliati e offesi in un tempo che ha smarrito la storia: “Che posso fare se so con sicurezza che alla base di tutte le virtù umane c’è il più terribile egoismo?… e più un’azione è virtuosa, più grande è l’egoismo. ‘Ama te stesso’, ecco l’unica regola che riconosco. Sono d’accordo con tutto, purché io stia bene, e ce ne sono a legioni di uomini che la pensano come me, e tutti stiamo veramente bene… Tutto può andare in rovina in questo mondo, soltanto noi esisteremo sempre. Esistiamo da quando esiste il mondo”.

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