
C’era una volta una piazza dove “la gente incontrava la gente” approfittando del”mercato delle braccia”, dove i bambini giocavano a pallone con una sfera di stracci …
Pochi di noi avevano allora l’orologio al polso e il vecchio orologio della piazza era lì a ricordarci puntualmente gli appuntamenti importanti della giornata.
La sua faccia rotonda, bianca, grande, aveva la numerazione romana che segnava le ore e due enormi lancette ricamate che ruotavano intorno: forse proprio per la sua lunga esperienza, si era fatta un’opinione personale del tempo. Andava avanti o restava indietro con una disinvoltura volubile e impressionante. I suoi nitidi rintocchi si risentivano nell’aria serena portando a domicilio i quarti, le mezze, i tre quarti e le ore intere attraverso porte, finestre, balconi. Pensate un po’ che ricordo anche la marca: Caccialupi! di Napoli. Sembrava che tutte le case si aprissero per mostrare la vita familiare che si svolgeva nel loro interno: le massaie affaccendate intorno al fuoco, gli allegri bambini che rincorrevano il gatto, le tavole imbandite con la tovaglia a quadretti colorati e la zuppiera fumante, la radio che parlava da sola e nessuno l’ascoltava. Quante volte ho sentito quelle campane suonare e quante volte ho guardato quell’orologio: il tutto buttato giu’ dal cieco vento del modernismo e dai politici ubriacati dal suo impeto… C’era una volta una piazza dove “la gente incontrava la gente” approfittando del ”mercato delle braccia”, dove i bambini giocavano a pallone con una sfera di stracci e, attorno ai marciapiedi, coi tappini della birra: la cosa strana era che quei fanciulli,con la loro indigenza atavica post bellica, erano felici.
A scandire l’attività umana di questa comunità prevalentemente agricola, al di sopra della piazza, una torre ed un orologio, con le sue belle due campane, dono alla cittadina di Grottaglie del re Ferdinando di Borbone. Inutile piangerci sopra, e dopo tanti anni, lo si registra come pura cronaca, lasciando ai più anziani una commistione di ricordi e tristezza. E’ ancora un luogo che rimanda a eventi, processi, strutture, idee, sentimenti, di un passato che non passa, si sedimenta, per poi essere letto da angolature, attraverso filtri e con finalità differenti? Il solito “tempo galantuomo” darà la sua risposta.
Il popolo della piazza, i contadini che tornavano dalla campagna, i vecchi che trascorrevano interi pomeriggi a parlare di tutto e di nulla, si sentirono improvvisamente orfani di qualcosa: avvertivano la sensazione di aver perso la nozione del tempo. Per alcuni giorni, lo sguardo all’insù verso il quadrante con le grandi sfere ferme ad angolo retto, tra le dodici e le tre (se la memoria di bambino non mi tradisce), la gente commentava con disagio, e con ironia, la decisione della modernizzazione del paese. L’orologio della piazza segnava l’ora per le classi sociali del paese: segnalava l’ora ai chiazzaiuli – medici, avvocati, farmacisti, preti, geometri, agronomi, maestri di scuola e impiegati – che abitavano in piazza e nelle strade del centro. L’orologio per loro era più un decoro della piazza, un emblema del paese, che uno strumento che servisse, giacché almeno un orologio nelle loro case l’avevano e quasi tutti avevano un orologio-cipolla nel taschino del gilet, con la catenella di metallo, o d’argento o, alcuni, addirittura d’oro, e non andavano in campagna. I contadini non avevano orologi nelle loro case, non avevano orologi-cipolla nel taschino del gilet (non avevano neanche il gilet), la catenella manco a pensarla, e tutto il giorno lavoravano in campagna, dove non giungevano più i rintocchi del loro orologio.
Un brano tratto da “Domenica in Albis” di Emanuele De Giorgio (1916/1983), artista, scrittore e giornalista locale, dal titolo “La Torretta dell’Orologio”: “Nel silente e suggestivo scenario della piazza l’occhio poteva abbracciare scorci disarticolati di logge ed archi; ma su tutto s’imponeva la severa struttura della cattedrale romanica, con la caratteristica cupola del Cappellone ricoperta di piastrelle in ceramica gialle e verdi, quasi a bilanciare il rapporto di pieni e di vuoti; ed anche perché sulla destra si sviluppava l’arcone del palazzo del principe, buio come una spelonca, a testimonianza del potere feudale di un passato non molto remoto. Al confronto la torretta dell’orologio sovrastante ad un loggiato cieco, sembrava un’opera di cesello,tanto era fine nelle modanature architettoniche e nelle linee rococò, unite alla balaustra in ferro battuto che correva sul corpo centrale della fabbrica (…) Una voce dominava incontrastata dall’alto della torre sulle vicende dell’uomo:era l’orologio che scandiva i rintocchi a due toni e ad intervalli regolari, per dare la misura del tempo(…) Chi aveva la ventura di trovarsi a tarda ora fuori le mura del paese, nel profondo silenzio della sera, sentiva le note argentine propagarsi per l’aria a fargli compagnia. L’orologio assumeva allora le funzioni del nume tutelare di una natura abbandonata a se stessa”.
Una pagina di malinconia… la mia, per chi, ancora, quella piazza la ricorda così… E’ sempre un’amena e piacevole musica che riporta indietro negli anni. E’ come se bloccasse il tempo al periodo della infanzia, quella persa per una giusta legge della Natura amica!