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Sciucamu a scunnicoa?”. “E allora mena…cumenza a cuntà!”. Iniziava così il gioco del nascondino.

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Il bambino a cui toccava trovare gli altri iniziava a contare appoggiato ad un muro col braccio davanti a coprirgli gli occhi.

Cerca e nasconditi

Bisognava contare ad alta voce perché chi si nascondeva doveva capire quanto tempo ancora aveva a disposizione. La conta in genere all’ inizio era normale ma quando si aveva la consapevolezza che gli altri ormai si erano allontanati cominciava ad essere progressivamente più veloce.

Ad un certo punto una voce, una parola decisa, proveniente da chissà dove che rimbombava come un eco lontano:”Piro!”. Significava che chi si doveva nascondere aveva trovato un bel nascondiglio con l’ invito ad essere trovato. E allora iniziava la caccia.

Si cercava di non allontanarsi troppo dalla “cova”, cioè da quel muro che bisognava toccare non appena si scorgeva chi si era nascosto. Se la cova veniva toccata per prima da coloro che bisognava cercare allora si doveva contare di nuovo perchè la partita era persa.

Un gioco di pazienza ed attenzione

Non appena si intravedeva una scarpa, un ginocchio, una mano dietro ad un muro si correva subito verso la cova toccandola: “Cinquanta pi Totore ca ste scunnutu retu allu parete!”.

Il bello è che quando ci si nascondeva bisognava fare il meno rumore possibile per non farsi scoprire, a volte fino ad arrivare a trattenere il fiato. Poi quando ci si accorgeva che la distanza per arrivare alla cova era più breve rispetto a quella che doveva percorrere colui che doveva scoprire il nascondiglio, si correva a tutta forza, come un giocatore di baseball per toccare il muro prima dell’ avversario e poter gridare la fatidica frase: ”Cinquanta pi mee!!”.

Francamente non ho mai capito per quale motivo venisse tirato in ballo proprio il numero cinquanta.

Attenti al “fulmine”!

Altro gioco altrettanto antico ed affascinante era “a fulmine”. Era una specie di scunnicoa con la variante che non esisteva la cova e che chi doveva cercare gli altri era una sorta di Megera che “pietrificava”, “fulminava” col semplice contatto fisico.

Quindi chi veniva toccato rimaneva immobile come una statua (da qui la variante “le belle statuine”) che poteva essere salvato solo da chi ancora non era stato toccato.

Il gioco si concludeva quando “il fulmine” cioè il bambino che doveva “fulminare” gli altri non aveva più nessuno da immobilizzare.

Se riusciva a rimanere qualcuno che poi toccandoli liberava anche gli altri il gioco diventava praticamente di durata infinita.

Quando si giocava per strada

Altri tre giochi che vale la pena menzionare erano: a ghiummo, a strinci uegghio e a campana.

Ghiummo che in grottagliese significa piombo era un gioco che ricordava molto la cavallina. Ci si divideva in due gruppi: quelli che dovevano rimanere piegati fungendo da supporto e quelli che dovevano saltare sulla schiena di questi ultimi. Il primo che saltava doveva arrivare il più lontano possibile cioè sulla schiena del ragazzino ricurvo che era in cima alla catena di coloro che fungevano da supporto.

Infatti più riusciva a saltare lungo più spazio c’era per i suoi compagni che saltavano subito dopo di lui di trovare posto sulla schiena degli avversari. Il gioco durava finchè il peso non faceva cadere tutti per terra!

Strinci uegghio consisteva nel mettersi affiancati in posizione latero-laterale l’ un l’altro. Siccome lo spazio lineare a disposizione era inferiore a quello occupato dal numero dei componenti del gioco, si creava una pressione tale che inevitabilmente qualcuno veniva meccanicamente espulso dalla fila E chi fuoriusciva, chiaramente, aveva perso.

La campana, agilità e pazienza

La campana era ed è forse uno dei giochi più appassionanti. Innanzitutto bisognava disegnarla con un pezzo di tufo. Quella più classica è rappresentata da un rettangolo costituito da 10 rettangoli disposti su due file. Ogni rettangolo viene contrassegnato con un numero da 1 a 10.

Il gioco consiste nel lanciare una piccola pietra possibilmente di forma appiattita in ognuno dei rettangoli senza toccare le linee. Più la casella è lontana più è difficile centrarla. Ogni volta che si centra una casella bisogna fare con dei saltelli particolari il giro di tutta la campana.

Una volta completato il lancio della pietra su tutte le caselle si passa al secondo step che prevede di chiudere gli occhi e fare passo dopo passo tutto il percorso della campana cercando di non pestare le righe.

Ad ogni passo bisogna dire: ”Amen” e se si procede bene gli altri diranno “Salame”. Appena si tocca una linea gli altri diranno “Sasizza” e ciò significa che bisogna iniziare di nuovo. Il gioco suona così: “Amen”, “Salame”, “Amen”, “Salame”, “Amen”, “Sasizzaaa!!!”.

I giochi (quasi) perduti

Poi vi sono altri giochi che ormai non si usa fare più.

Uno di questi era “lu spaccachianche” che consisteva nel lanciare in aria una moneta per farla cadere nella fessura tra una chianca e l’ altra.

Altro gioco era “lu battiparete” che consisteva nello scagliare una moneta o un altro oggetto contro una parete facendolo rimbalzare. Vinceva che riusciva dopo il rimbalzo a fare arrivare la moneta più lontana dalla parete.

Il gioco delle “stacchie” consisteva invece nel lanciare delle pale di fico d’ India tagliate a forma di disco contro un barattolo con delle monetine. Vinceva chi, dopo aver rovesciato il barattolo, riusciva ad avere la stacchia (la pala di fico d’ India) più vicina alle monetine cadute a terra.

Vi ho elencato solo alcuni dei tanti giochi che erano infiniti come infinita è appunto la fantasia, specie quella dei bambini.

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