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“L’abito non fa il monaco”, ci ricorda la saggezza popolare; “L’apparenza inganna”, gli fa eco un proverbio che evidenzia quanto la realtà sia spesso diversa da quello che appare al primo sguardo.

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Eppure, ancora oggi, troppo spesso, nei casi di violenza sessuale contro le donne, a salire sul banco degli accusati è la vittima, il suo abbigliamento, il suo comportamento, le sue “provocazioni” (doverosamente tra virgolette).

Sono passati secoli dal processo in cui Artemisia Gentileschi dovette difendersi dai sospetti dei giudici e dalla morbosa curiosità popolare dopo aver denunciato la violenza subita, appena diciottenne, da Agostino Tassi; sono passati quarant’anni dall’arringa di Tina Lagostena Bassi, resa celebre nell’epocale documentario di “Processo per stupro”. Migliaia i casi in cui la violenza bestiale di uno o più uomini si è accanita contro donne indifese, migliaia i casi in cui – invece di condannare quest’atto ignominioso – si disserta della lunghezza della gonna o della profondità della scollatura di chi quella violenza l’ha subita.

“Com’eri vestita?”, la mostra allestita nell’ex Convento dei Cappuccini di Grottaglie, ha il pregio non comune di una installazione minimalista, che fa emergere l’enormità delle vicende raccontate. Niente titoli cubitali, niente immagini ad effetto: brevi didascalie che costringono il visitatore ad avvicinarsi a ciascun’abito esposto, con il timore di violare uno spazio che dovrebbe essere sacro. Ogni abito racconta una storia, ogni abito ricorda una violenza, ogni abito ci riporta a quella “banalità del male” analizzata da Anna Arendt, in questo caso ancora – se possibile – più inaccettabile perché espressa da un amico, un parente, un vicino di casa, un conoscente.

Nessun caso eclatante, pochi o – forse – nessuno degli episodi avrà avuto più di due righe in cronaca, oggi probabilmente la situazione sarebbe diversa, ma non per questo migliore, con i social ad aizzare commenti sguaiati e illazioni turpi verso le vittime di violenza a cui, bisogna dolorosamente notarlo, neppure altre donne si sottraggono. Questa mostra va visitata in silenzio, a passo lento, come una via crucis laica che ad ogni fermata ci impone una doverosa riflessione, se non una dolorosa immedesimazione. Ciascuno di noi dovrebbe osservare questi abiti, tutt’altro che sexy e provocanti (e anche se lo fossero stati, sia chiaro, non avrebbero autorizzato nulla di più di un ammirato complimento), leggere le poche righe che descrivono l’episodio che ha sconvolto la vita di chi li indossava e fare a sé stesso una semplice promessa: “Mai più!”

Mai più violenza? Sarebbe troppo bello per essere vero. Ma mai più commenti idioti, mai più illazioni offensive, mai più sospetti volgari questo si, questo è possibile. Perché ognuna delle donne che ha subito e subirà violenza è e sarà nostra madre, nostra sorella, nostra figlia, la nostra amica del cuore.

“Com’eri vestita?” riserviamolo come commento al racconto di una festa in maschera, di una sfilata di carnevale, di un pranzo di matrimonio. Le parole possono curare le ferite così come possono aprirne di altre, ancora più dolorose e devastanti di quelle fisiche. A noi la scelta di agire per il meglio. A noi adulti il compito di educare i ragazzi ad un comportamento attento e rispettoso, a noi l’obbligo di testimoniare ogni giorno e con i fatti, se siamo dalla parte delle vittime o dei carnefici.

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