Leonida di Taranto
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Perché bisogna rileggere e raccontare Corrado Alvaro oltre le valenze aspromontane?
Perché bisogna andare oltre una questione meridionale che pur vive tra le immagini alvariane?

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Perché è necessario contestualizzare un Novecento nelle cui opere di Alvaro il senso del tempo è una griglia simbolica e metaforica?
Alvaro è un Novecento che non smette di essere tale sia sul piano prettamente letterario che su quello antropologico.
La dimensione letteraria si gioca strettamente sui personaggi che campeggiano nelle sue opere (come avviene d’altronde anche in Pirandello, nel Pirandello tanto amato e studiato dallo stesso Alvaro), perché sono i personaggi che creano e strutturano il racconto.
Nel 1934, in occasione del Nobel a Pirandello, Alvaro dirà: “La sua lingua, al principio ripicchiata e di vocabolario, diviene nel meglio della sua opera un modo d’esprimersi naturale, come si esprimono gli elementi nella luce; le sue manie a un certo punto investono l’uomo e divengono rimpianti di angeli decaduti, incubi, segni del destino. Tanto è vero che non c’è grande poeta senza idee fisse”.
Non è la rappresentazione degli ambienti o del reale. Una questione antica che in Alvaro non dovrebbe trovare più alcuna discussione perché Alvaro esiste come scrittore non perché lega il pastorello con la terra d’Aspromonte. Esiste perché costruisce personaggi.
Si pensi a quell’uomo che vive il suo “labirinto” all’interno di un viaggio che ha una sua geografia, ma ha anche una sua insistenza metaforica. Lo scrittore usa il linguaggio non per descrive soltanto, bensì per far vivere dimensioni metaforiche che hanno percorsi esistenziali ed onirici.

Il sogno e la vita sono in Alvaro in quella interpretazione letteraria che pone al centro l’uomo il destino l’avventura (Cfr. Giacomo Debenedetti su aspetti inerenti il romanzo nel Novecento italiano).
È anche scrittore di un solo personaggio che viene individuato come incipit di tutti gli altri. Penso a “Mastrangelina”. L’inizio recita: “È mio proposito raccontare quello che accadde nella città di Turio nel 1914. Costretto a vivere nella biblioteca comunale di questa città, vado occupando il mio tempo in un lavoro che possa tornare utile a quelli che vorranno rintracciare un momento della storia dei turiesi, o turioti come si suol dire. Naturalmente, questo momento, o il breve periodo che mi metto a descrivere, comprenderà un poco del passato, giacché le persone che vi si incontreranno hanno una storia che raggiunge il suo punto più interessante proprio in quest’anno. Spero che la pazienza per scrivere di queste cose mi assista fino in fondo, e che non mi scoraggi il fatto di vedermi attorno tanti libri negli scaffali, in cui è scritto tutto e in cui tutte le combinazioni della fantasia umana sono esaurite”.
Completamente differente come linguaggio, struttura semantica e modello antropologico è “Gente in Aspromonte”. Inizio: “Non è bella la vita dei pastori in Aspromonte, d’inverno, quando i torbidi torrenti corrono al mare, e la terra sembra navigare sulle acque. I pastori stanno nelle case costruite di frasche e di fango, e dormono con gli animali. Vanno in giro coi lunghi cappucci attaccati ad una mantelletta triangolare che protegge le spalle, come si vede talvolta raffigurato qualche dio greco pellegrino e invernale”.
L’aspetto antropologico è dentro la letteratura. Non si tratta comunque di una antropologia dell’indagine (sarebbe sociologia). Piuttosto di una antropologia del viaggiare e dell’osservare.
La strategia del viaggio in Alvaro costituisce un dato essenziale. Legata al mito, alla grecità soprattutto, ma anche all’Oriente, una tale strategia fa dire che “la favola della vita mi interessa più della vita. È Alvaro che dice ciò e l’ho ribadito più volte. La favola della vita cosa è? È il mito.

Il suo viaggio in Turchia, tra Ankara e Istanbul, è nella ricerca degli Orienti, ovvero dei simboli, delle religioni che sono espressioni antropologiche, è nella comparazione tra le terre arse e i mari immensi, tra i mari circonferenza e gli orizzonti, tra i popoli che recitano la loro tradizione e le civiltà che hanno depositato nel tempo dei luoghi un abitato d’anima e di oggetti.
Scrivendo su Istanbul coglie questo immediato flash: “La vecchia Istanbul ha in prevalenza botteghe di roba da mangiare; interamente aperte sulla strada, per la lunghezza della parete, mostrano i cuochi affaccendati al lavoro di quella cucina orientale fatta di teorie infinite di paste dolci, miscuglio di olio e di miele, di grasso e di zucchero. La città è tutta dorata di fritture”.
La Turchia è un viaggio supremo, perché Alvaro riesce a raccogliere lo scavo dei diversi Mediterranei con il Mediterraneo arabo e con quello greco. La grecità resta un modello Mediterraneo, ma gli Orienti alvariani sono da ricercarsi in mondo turco che ha anche una sua radice latina.
Nel suo viaggio in Turchia Alvaro annoterà: “stando nel Mediterraneo come in una contrada battuta da anni, tutti popoli intorno ad esso sono come vicini di casa, e per poco, attraverso i loro occhi, quel mare non vi parrà lo stagno di cui parlava Platone”.
Ci sono Orienti asiatici nel suo viaggiare in Russia e in Germania. La Russia che viene identificata come l’uomo forte è una sibillina metafora del mondo devastato della decadenza. Dall’Asia si ritorna alla grecità e a Medea.

La Turchia è fatta di Mosche che esprimono una straordinaria antropologia religiosa sul piano di una eredità che si trasforma in identità. Nella sua opera ricorre l’allegoria del labirinto. Tale allegoria si intreccia con una ulteriore metafora che è quella della maschera.
Sul tema della maschera e anche dell’assurdo vi campeggia Pirandello.
Il Pirandello tanto amato da Alvaro e sul quale ha dedicato scritti importanti come l’Introduzione alle “Novelle”. Un Pirandello amico e amato.
Scriverà il 22 12 del 1946 sul “Corriere della Sera”, e poi nella Introduzione alle “Novelle”: “Credo sia triste, per uno scrittore quando termina l’età della lotta, e il pubblico festeggia ciò che un tempo avrebbe rifiutato, come riparando all’errore di non aver capito molte volte, e forse scontando per quello che poi dimenticherà. Non so se Pirandello lo avvertisse. Ma in quei giorni era inquieto. Pensava di trasferirsi a Milano, o di andare a lavorare in una stanza qualunque a Parigi. Invece si ammalò. Lo vidi proprio quel giorno che tornava dall’avere assistito in un teatro di posa alla ripresa d’un film tratto da un suo dramma; aveva i brividi, camminava su e giù per lo studio, impaziente come tutte le volte che subiva un contrattempo. Gli stavano preparando il letto. In quel letto pochi giorni dopo moriva.
“Non ero andato neppure a trovarlo durante la sua malattia, che fu breve, perché mi dicevano che scherzava, si burlava del medico, si burlava delle medicine. Una mattina, quella mattina, m’ero levato presto. Sentimmo uno schianto in casa, come un mobile che si spacca pel caldo; cercammo dappertutto, non si era rotto niente, non era caduto niente. Qualche minuto dopo, una voce piangente al telefono ci diceva che Pirandello era morto in quel momento. Fummo sicuri che quello schianto era stato un suo avviso, come se avesse picchiato forte chissà a quale porta. Chi telefonava era la sua nuora Olinda, con la voce del pianto che non si conosce mai nelle persone, ci diceva di telefonare a un prete nostro amico e letterato perché corresse, e che corressimo anche noi”.

Una riflessione non tanto sull’opera pirandelliana quanto su una comparazione tra l’io avariano scrittore e il noi pirandelliano dentro i riflessi di uno specchio che pongono da una parte il labirinto e dall’altro la recita e la finzione per tentare di aggrapparsi ai capelli di Arianna.
Una metafora? Viviamo di metafore.
L’Alvaro che resta ancorato al Novecento alto è quello che recupera il senso del tempo proustiano e ne va una rivelazione in cui la memoria esiste in quanto il suo porto ha le travature del sogno.
Alvaro nasce poeta e nasce con il linguaggio del viaggiatore, le sue poesie che hanno il vestito grigioverde sono lì per essere comprese, e delle frontiere da superare e continua questo suo percorso con il pensiero – riferimento che è dato dal comprendere il concetto di labirinto che diventa inafferrabile, poi l’Aspromonte e la sua gente e il resto è un immaginario in cui la geografia fisica si trasforma in una grammatica della metafisica proprio andando alla ricerca dei Mediterranei oltre la sua terra.
Alvaro: “Il Mediterraneo. Incontri e sedimenti di civiltà. Amicizie che spesso rimontano a secoli. I popoli affacciati su questo mare spettegolano uno dell’altro…” (da “Quasi una vita”). E ancora: “Il Mediterraneo è istinto, intuizione; prima che parlino in lui i motivi di vita lo spingono le ragioni ideali e istintive”. E poi: “L’intuizione delle razze mediterranee è stata il motore del mondo”.
“…Il Mediterraneo sarà cuore del mondo… tornando alla sua unità, libero tra nazioni libere, può dettare la sua pace, e nel mondo d’oggi che si raggruppa in alleanze di razze e di sistemi, formare una civiltà unita più che dell’affinità delle razze, della comunanza di culture e d’interessi”. Dunque il Corrado Alvaro di una antropologia dei popoli che si sofferma su un intreccio di etnie in un Mediterraneo confuso ed ereditario.

Quella sua nostra terra che resta indefinibile ed infinita, ma è un viaggio che non smette di viaggiare tra i cerchi e i fili che permettono di oltrepassare le line dei mari. Questa è antropologia nella letteratura. Ed è appunto questa metafora che diventa pirandellianamente un ulissismo in cui quel Nessuno ha il volto dell’infinito viaggiatore che tocca Itaca e ritorna tra i mari di Dante a sorseggiare la vita e la morte portandosi dentro la cecità di Omero.
Perché per poter condividere la vita e la morte in un tempo immenso bisogna essere vissuti come Omero. E Alvaro ciò lo sapeva molto bene. Perché ad Omero deve il suo libro di poesie in cui il viaggio diventa illuminazione illuminante e il suo itinerario italiano è il percorrere le isole del proprio coesistere con il mare e la terra tra i sogni senza mai disubbidire alla realtà che non è dentro la letteratura che la letteratura attraversa per consegnarsi a un kafkiano disegno che è quello della recita oltre il teatro dell’esistere.
L’Alvaro del viaggio, dunque, è l’Alvaro scrittore che fa del mare la vastità dell’orizzonte e dei linguaggi la conoscenza della propria ontologia.
Ecco perché bisogna rileggere Corrado Alvaro in una ampiezza di visioni. Non è lo scrittore della “provincia”. È il quadro di una generazione non solo italiana. Credo, appunto, che lo scavo dell’uomo che si agita nel labirinto abbia segnato un solco nel Novecento. È il recupero di un dialogare che va oltre il “sottosuolo”.

Musil disegna l’inadeguatezza dell’uomo definendolo senza qualità. Dostoewskij lo aveva collocato nel “sottosuolo”. Proust nel tempo perduto e ritrovato. Pirandello nella maschera. Zambrano nella confessione.
Alvaro porta dentro il personaggio il labirinto in una chiave interpretativa greco – latina. ovvero Mediterranea.
Una Turchia Mediterranea: “Negli uomini dei paesi del mediterraneo i vizi che le perdettero e le virtù che li portarono in alto sono rimasti prevalenti in ogni individuo; da individuo ad individuo e da nazione a nazione difetti e virtù formano quasi una parentela che in tutto il millenario rimescolio della loro storia è rimasta egualmente viva in tutti, come in una famiglia dove si possono osservare i diversi caratteri come allignano dall’uno all’altro. Quattro e cinquemila anni di rapporti hanno, di mescolamenti, di guerre, hanno formato nel mediterraneo un panorama di regioni più che di nazioni, e l’uomo è chiaro, e si riconoscono i pensieri e le reazioni d’ognuno come in un vecchio libro”.

Il suo Mediterraneo non nasce soltanto dal fatto che i suoi natali sono in una terra profondamente mediterranea. Ma anche dalla sua intuizione, dalla sua sensibilità, dalla sua percezione e dal mistero che coniuga il pensiero alla parola.
Alvaro in Turchia: “Vecchio Mediterraneo; ha anticipato nelle sue favole tutte angosce della vita moderna e le più catastrofiche fantasie sulle vicende dei popoli”.
Il labirintico senso delle metafore è nel suo vivere la letteratura come un viaggio percettibile e indecifrabile. Da qui nasce la sua letteratura della riflessione. Ed è una lezione pirandelliana questa della riflessione come anche il “sentimento del contrario”.

Il suo viaggiare, soprattutto il suo abitare errante in Turchia. È stato un fissare il linguaggio sulla riflessione osservando, ascoltando, impastandosi con il sentiero – sentimento del contrario.

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