Leonida di Taranto
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È morto Guido Ceronetti a Cetona. Non potrò mai dimenticare quando pronunciò: “Il piacere unisce i corpi, la pena le anime”. Lo scrittore, il poeta, l’uomo che ha drammatizzato il linguaggio e la parola. Che ha raccontato il fare della metafisica attraverso una scelta di aforismi nel corso di un cammino narrativo e poetico che lo ha condotto sulle orme del viaggio biblico, del viaggio omerico e delle “Odi” di Ovidio che hanno caratterizzato il suo ultimo periodo. Infatti, proprio di recente, nel 2018, era stata pubblicata una scelta di traduzioni delle “Odi” di Ovidio.

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Uno scrittore che si è sempre misurato con una realtà della parola che si assentava dalla cronaca e dalla rappresentazione per fare del tempo non una cronologia di fatti, ma un vero e proprio viaggio all’interno della conoscenza e della bellezza: “La bellezza è il ponte unico che ci collega con l’infinito. È apparsa per frenare l’intollerabilità del male umano e del suo lamento nella porzione di Essere che ci limita e opprime”.

Conoscevo bene Guido. Ho scritto spesso su di lui e mi sono trovato di frequente a confrontarmi con il suo sapere magico, filosofico, in cui la centralità dell’uomo era diventata una vera e propria misura tra il mondo classico e la modernità. Quella modernità che ha la sensibilità di fotografare non l’esterno ma l’interno, il tempo e la coscienza dell’anima. Ceronetti ha tradotto la classicità in modernità. Si pensi ai suoi studi, alle sue traduzioni su Marziale, Catullo, Giovenale, Orazio e infine su Ovidio.

A mio avviso, uno dei percorsi fondamentali del viaggio di Guido Ceronetti è stato il suo incontrarsi con il mondo ebraico antico mediante lo studio del Cantico dei cantici, dell’Ecclesiaste, del Libro di Giobbe e dei Salmi. Attraversando questi linguaggi ha recuperato, in alcuni aforismi, il silenzio del corpo e i pensieri che vivono nella mente. Anche il suo fare teatro ha avuto come punto di riferimento questa stessa visione della dispersione, della lacerazione, della separazione. Visione che confluirà, successivamente, in un concetto molto forte che finirà per contraddistinguere tutta quella letteratura della forza, dalla caratura identitaria: ovvero, il concetto dell’esilio. In fondo ci dice Ceronetti: “La natura non è materiale come la ragione”, dice meravigliosamente Leopardi. Di qui l’impossibilità per la ragione, con le sue “operazioni materialissime e matematiche”, di penetrarla”.

Ceronetti poneva come punto centrale questa peculiare visione di scavare nel fondo senza fondo dell’anima. Il suo teatro cosiddetto “sensibile”, il suo modellare la vita su alcuni parametri esistenziali, come appunto le lacerazioni e le separazioni nella ruota del tempo, lo hanno portato a costruire un modello di letteratura frammentata. Sarà Ceronetti a introdurre in Italia Emil Cioran, uno tra i più interessanti e sicuri filosofi del Novecento, attraverso la pubblicazione, nel 1981, di un libro fondamentale intitolato “Esercizi di ammirazione”.

Un filosofo, Ceronetti, che ha premuto il suo essere esistenziale sul senso dell’inquieto. Quell’inquieto che lo condurrà a libri importanti che tratteggeranno un nuovo modo di fare letteratura. Nel 1971 pubblica “Difesa della luna e altri argomenti di miseria terrestre”. Questo è già un penetrare il senso dell’alchimia che c’è nella parola, nel linguaggio. Un libro al quale seguirà, nel 1979, “Il silenzio del corpo. Materiali per studio di medicina”. Con questo testo si entra direttamente in quella letteratura che non è apparente, mentre la vita può diventare apparente. In Ceronetti la letteratura si trasforma pensiero o briciola del pensiero che si raggruma per divenire favola o leggenda. Tutto ciò lo porta a leggere Cristina Campo attraverso una interpretazione scavante negli ossi dell’anima.

Scrive: “Cristina Campo, bagliore letterario, fu ben più che una “donna letterata”. O non la sentirei così vicina, così tuttora fraterna… Essa invita a meditare non sulla propria soltanto, ma sulla scrittura, sull’ars’ dello scrivere, sulla Parola originaria che diventa, in una diaspora stellare illimitata, scrittura alfabetica, stile che afferra, forma metaparlante, pane soprasostanziale: miracolo possibile solo a chi ebbe con gli archetipi un rapporto stretto stretto, a chi fu reso atto a percepire le sonorità misteriose, oscure, che secerne il silenzio prudente delle Madri”.

Il silenzio prudente e la pazienza del frammento mai interrotto.“La nostra povera vita di testimoni della fine. Che cosa si può fare? Endura del silenzio, suicidio, o sottomissione”.

Dove tutto è enigma (storia, natura, cosmo) la certezza dell’insolubilità pone un invisibile seme di speranza. Perché? Perché “I demoni non sono più esclusivi abitatori di rovine. Hanno capito che questa civiltà è tutta un immenso brulicare di rovine, perché riflette l’uomo nella sua integrità di male”.

Il concetto chiave della sua genialità creativa è l’esilio accompagnato sempre dal sentiero della malinconia. In “L’occhiale malinconico” del 1988 pone all’attenzione il ruolo dello scrittore. Lo scrittore esiste realmente o esiste solo per sé? Pensieri parziali e pensieri imparziali all’interno di un vissuto che è diventato un viaggio nell’antropologia dell’anima.

Ceronetti non si è mai posto il concetto di verità, ma sempre quello di incertezza.

Ci sono stati altri due libri che hanno rotto gli argini di una letteratura in cui il rossore della nostalgia stava per diventare rossore dell’incompiutezza. Due libri pubblicati a due anni di distanza l’uno dall’altro: “Cara incertezza” del 1997 e “Lo scrittore inesistente” del 1999. Dalla incertezza, che non è metafisica, si passa allo scrittore inesistente che penetra il senso di fragilità che diventa tragicità dell’esistere. La letteratura, come spiega Ceronetti nel suo libro del 2005 dal titolo “La lanterna del filosofo”, vive soltanto attraverso la lanterna del filosofo. Non può esistere nessuna letteratura e poesia senza la luce della filosofia.

Il cerchio e il labirinto sono altre due metafore che ci consentono di continuare a percorrere questa strada esistenziale che per Ceronetti è diventata “tascabilità del senso tragico”, come possiamo leggere nel suo libro “Tragico tascabile” del 2015. Il tragico non lo portiamo solo dentro di noi, ma anche nelle nostre tasche. Ecco come la fragilità, l’inesistenza, la lacerazione, l’esilio culminano con il senso del tragico, con il sentimento, con il sentiero del tragico.

Nel suo libro “Per non dimenticare la memoria” del 2016, Ceronetti affronta il tema della memoria rivolgendosi a noi mortali che ci crediamo immortali o che ci sentiamo immortali. Un disegno in cui tutto diventa provvisorio, fragile. Ed è proprio in questa provvisorietà – fragilità della vita che si disegnano le distanze. La distanza è un tema nevralgico soprattutto nella sua poesia che ha come epicentro il percorso biblico dei Salmi. Tutta la frammentazione poetica che ci lascia manifesta questa tonalità di compassione, disperazione all’interno della visione della distanza, concepita come fragilità. Distanza intesa come recupero di ciò che noi crediamo di essere guardandoci allo specchio.

Guido Ceronetti è stato un grande pensatore del pensiero forte, delle parole pensanti. Lo si può constatare in special modo nel suo salire e scendere tra la narrativa e la saggistica, tra la drammaturgia e le sue traduzioni. Uno scrittore che ha sempre amato Rimbaud cercando il lui il senso della vita e della morte. Nelle traduzioni, e più precisamente negli epigrammi di Marziale, Ceronetti cerca di capire il senso dell’ironico, quel senso dell’ironico che stravolgerà il suo concetto di ritorno, di esilio e di esistenza quando porrà lo sguardo e le mani sulle opere di Sofocle che rappresenta la punta di diamante nella drammaticità e nella tragicità greca. Ceronetti non si accosta soltanto alla classicità greca, ma traduce anche un libro di Kostantinos Kavafis dal titolo “Un’ombra fuggitiva di piacere”.

I titoli dati alle sue opere hanno già un incipit mediante cui i sentimenti mettono in scena il tratto umano, il tratto esistenziale vero e proprio e quella profonda sensibilità che si evidenzia principalmente nel suo teatro. In quel “teatro dei sensibili”, come egli stesso lo ha definito, in cui pulsa un collage di misure ontologiche nel quale la teatralità diventa perenne “illuminazione” verso la tragicità. La tragicità per Ceronetti si confronta costantemente con il senso di solitudine. Non siamo soltanto delle marionette. Siamo la recita di noi stessi. Da una parte viviamo Cioran, dall’altra Ionesco.

Un grande scrittore-filosofo divenuto integerrimo nei confronti di quelle parole che hanno dato un significato al nostro esistere e al nostro morire, nonostante ci sentiamo costantemente immortali. Sentirsi “immortali”, tuttavia, non significa non vivere nel senso del tragico o non appartenere alla stanza della solitudine. Si continua a sentirsi immortali pur vivendo il tragico e abitando la solitudine. Si fugge dalle ombre per vivere l’abitare dell’incerto che porta ad un infinto indelebile. Perché “Nessuno è perso, nell’infinito. Terribile è perdersi, sentire di essere persi, nel finito”. In fondo sappiamo bene che “Dare gioia è un mestiere duro”. Un filosofo del pellegrinaggio delle anime vive e dei cuori appesi alla trasparenza del silenzio.

Guido Ceronetti era nato a Torino il 24 agosto del 1927, e morto a Cetona il 13 settembre del 2018. Lo avevo incontrato, con la sua riservatezza, nella vita dei segreti che conducono alla pazienza. Ed è come se mi avesse confidato sin dall’inizio dei nostri incontri che “ Le foglie stanno volando via dal mondo e sopra c’erano dei messaggi e degli enigmi che non abbiamo decifrato. Anche le mani: lette poco, troppo poco; anche le rughe, i lobi… Non abbiamo letto che dei libri”.

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