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Non sempre i proverbi hanno ragione; a volte anche la saggezza popolare è difficile da condividere.

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Quando si parla della situazione occupazionale della provincia di Taranto, il detto “Mal comune, mezzo gaudio” si mostra in tutta la sua drammatica insostenibilità. Il territorio ionico è oramai da anni stritolato da una crisi economica che si ripercuote pesantemente anche sui livelli occupazionali, praticamente in caduta libera. L’elenco delle grandi aziende in crisi è un vero e proprio bollettino di guerra: Ilva, Tele Performance, TCT ed Evergreen, Auchan ed Ipercoop, solo per citare quelle interessate dalle cronache di queste settimane, perché – andando più indietro nel tempo – bisognerebbe aggiungere alla lista anche le varie Miroglio, Marcegaglia, Sural e Fonderie e via ricordando chi già ha chiuso da tempo. Se l’industria privata piange, non sta meglio chi lavora nella Pubblica Amministrazione, con i casi eclatanti dei dipendenti dei vari enti della Marina Militare o di Isola Verde o delle cooperative sociali alle dipendenze di Comune ed altre Istituzioni che si dibattono nelle sabbie mobili di una “spending review” che cela notto l’ammiccante nome anglofono tagli lineari al limite della macelleria sociale.

La situazione è sotto gli occhi di tutti e si ripercuote a catena sulle altre realtà produttive e commerciali del territorio, in un drammatico “effetto domino” che coinvolge tutti, le ditte dell’indotto, i commercianti e gli artigiani. La situazione – giova ricordarlo – non è certo figlia di eventi imprevisti ed improvvisi, ma piuttosto frutto di decenni di menefreghismo, trascuratezza e colpevole disinteresse, tanto di chi doveva decidere che di chi quelle decisioni doveva pretenderle. Finchè tutto andava bene nessuno si è preoccupato di immaginare cosa poteva succedere di li a dieci o vent’anni; quando le prime avvisaglie di quello che sarebbe avvenuto a Ilva ci furono decenni fa, sindaco Rossana Di Bello, con i primi sequestri delle cokerie, in pochi cominciarono a rendersi conto che bisognava cominciare a pensare ad una exit strategy da programmare per tempo. Allora, e – duole dirlo – anche oggi, pareva che l’unico fondamentale problema fosse di assicurare alla locale squadra di calcio congrue risorse economiche, tanto che nel 2001 ci fu una mancata costituzione di parte civile di Comune e Provincia nei processi contro l’Ilva in coincidenza con una robusta elargizione di euro alla società rossoblù.

Un futuro nuovo non si costruisce in un mese o in un anno, ma va programmato e pensato per tempo, anche ispirandosi a quanto hanno fatto altre realtà più o meno vicine (Brindisi docet) e puntando sui propri punti di forza e di eccellenza. Se decenni fa i “metal mezzadri” abbandonarono campagne e botteghe ammaliati dal posto fisso, oggi non è più necessario, ma indispensabile, ripartire da allora, capire come è cambiato il mondo e come cambierà, fare i conti con un mercato sempre più globale che in 48 ore consegna a Taranto un lettore MP3 prodotto in Cina ma che – d’altra parte – è disposto a spendere per avere una bottiglia di vero Primitivo di Manduria o di genuino olio extra vergine di oliva in un ristorante di Pechino o New York.

Non si tratta solo di produrre, si tratta anche di saper offrire: Taranto sconta ancora una situazione di collegamenti e trasporti vergognosa, è praticamente tagliata fuori dal resto d’Italia; anche questo è un punto cruciale, perché se di turismo si vorrà campare, occorrerà anche che i turisti riescano ad arrivare senza affrontare odissee da reality show.

Ma questo è futuro; un futuro ipotetico, non sappiamo quanto prossimo, che bisognerebbe aver cominciato a costruire ieri per averlo domani. Oggi la realtà è drammaticamente diversa, ed è fatta di migliaia di famiglie che vedono a rischio la loro sopravvivenza quotidiana senza che, aldilà dei proclami da campagna elettorale, si vedano gesti ed azioni realmente efficaci.Taranto continua a subire, apatica e straziata, ma fino a quando potrà sopportare tutto questo scempio?

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