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L’antropologia ha armai uno stretto contatto con ciò che viene definito in un gergo demoetnoantropologico “geo – alimentazione”.

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Infatti il cibo, la alimentazione, i prodotti culinari del territorio sono parte integrante per una conoscenza sia etnica (le cui derivazioni è nell’intreccio dei popoli e delle usanze e costumi di una civiltà) sia geo – territoriale di una determinata “terra”.
Il modello geo – alimentare – etnico è il portato storico di una “primitività” dei popoli. Infatti i popoli si caratterizzano proprio attraverso ciò che usano per nutrirsi nelle varie fasi del giorno. È un dettato antropologico che interessa una filosofia della conoscenza.

Un cibo ha una sua caratteristica fatta da contaminazioni e influenze diverse. Contaminazioni che costituiscono la interazione o la vicinanze di altre comunità i cui interessi culturali e di appartenenza sono diverse. Il cibo e il tempo della consumazione è un rito della sacralità di un popolo.
Ernesto De Martino sosteneva: “L’uomo si è affidato a ripetizioni ritmiche celesti proprio per proteggere il troppo interno e labile calendario del suo cuore, e per poter iscrivere i tempi precari dei cuori nel più stabile tempo del cielo”.
Una metafora in un percorso antropologico che recupera ciò che Mircea Eliade sosteneva: “Il sacro si manifesta sotto qualsiasi forma, anche la più aberrante”. In quanto, sempre Eliade: “Trasformando tutti gli atti fisiologici in cerimonie, l’uomo arcaico si sforza di «passare oltre», di proiettarsi oltre il tempo (del divenire), nell’eternità”.

Eliade costruisce, attraverso questa visione, delle immagini, dei simboli e dei miti che però “non sono creazioni irresponsabili della psiche; così rispondono a una necessità e adempiono una funzione importante: mettere a nudo le modalità più segrete dell’essere”.
In questo incastro il ruolo della antropologia diventa importante e significativa perché: “L’antropologo rispetta la storia, pur non assegnandole il valore che le spetta. Infatti la ritiene uno studio complementare a se stesso: da una parte spiega il susseguirsi delle società umane nel tempo, dall’altra nello spazio”, come ebbe a dire Claude Lévi-Strauss.

Un insieme di raccordi culturali che rientrano in ciò che si definisce mito. Molto pertinente la sottolineatura di Bronilaw Malinowski quando afferma: “Il mito… non e’ solo una storia raccontata, ma una realtà vissuta, non e’ una invenzione, come potrebbe essere un romanzo, ma e’ realtà vivente che si crede accaduta in tempi primordiali e che perdura tanto da influenzare il mondo e i destini umani”.
La geo – alimentazione inserita in un tale contesto diventa anche come il recupero di ricordanze che riportano a luoghi del sapere distanti dal presente. Cesare Pavese nel suo indagare antropologicamente affermava: “Le cose si scoprono attraverso i ricordi che se ne hanno. Ricordare una cosa significa vederla – ora soltanto – per la prima volta”.

Così gustare un cibo è come gustarlo per la prima volta, ma porta dentro il suo gusto delle pertinenti eredità, le quali creano, appunto, il tessuto etno – antropologico. I piatti tipici di una comunità non sono altro che l’esplorazione di un vissuto culturale ben definito tra eredità e contaminazioni. Una koinè della alimentazione che costituisce il dato comprensivo di un territorio e di un popolo.
Per penetrare in una tale dimensione è necessario una teoria antropologica applicata alla geo – alimentazione che è quella del ricordare e del ricostruire. Un cibo diventa un prodotto di un archetipo soltanto se ricordiamo il suo gusto e il suo impasto. Ciò ci conduce a un immaginario che diventa rivelazione di uno status di una cultura primigenia.

Proprio in virtù di ciò la “antro – alimentazione” è un processo che ci conduce al senso della memoria la quale ha il dono del perduto – ritrovato.

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