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Nella letteratura del Novecento italiano ci sono forti elementi di presenze etniche che hanno caratterizzato formazione e scrittura. Una etnia come metafora ma anche come linguaggio. Il mondo mediterraneo è stato riferimento per scrittori e poeti che vanno da D’Annunzio a Ungaretti da Grazia Deledda e Cesare Pavese.

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Un Mediterraneo aperto a finestre Orientali ed Occidentali ma la metafisica ellenico – greca è una componente forte del Novecento. Infatti il mondo greco (o il mondo greco – arcaico) resta per Pavese un riferimento, le cui radici hanno matrici ancora indelebili sia per ciò che concerne i processi artistici sia per una visione culturale d’assieme. Mi pare fondamentale una versione di comunanze di istanze in cui la cultura della tradizione è centralità pur in una diversità di esperienze epocali.
La cultura grecanica è portatrice di modelli che hanno rimandi non solo in termini dialettologici ma anche storici. Ebbene, Cesare Pavese visse tra i grecanici e ad essi si interessò con grande meraviglia.

Cesare Pavese (1908 – 1950) venne confinato a metà degli anni Trenta a Brancaleone in Calabria (1935 – 1936). Terra grecanica per formazione geografica e per spessore storico. Un piccolo lembo di Calabria in cui l’etnia dei grecanici è ancora abbastanza evidente. E il linguaggio (il cosiddetto modello etno – linguistico) costituisce insieme a forme di tradizione un inciso culturale abbastanza marcato.
Qui Pavese consumò i suoi giorni da confinato e per lo scrittore piemontese tutto era greco. Persino le donne che con il loro passo di danza andavano alla fontana con l’anfora in testa. In una lettera alla sorella Maria, Pavese racconta frammenti di luogo definendo tutto il contesto come una ambientazione greca.
Il mare, la terra rossa, la gente, la lingua, gli usi. E tutto ciò si evince nel suo romanzo che i giorni vissuti a Brancaleone gli hanno dettato. Ci si riferisce a “Il carcere”, al quale il regista Mario Foglietti ha dedicato un film per la Tv.
Così sottolinea Pavese in una lettera alla sorella in data 27 dicembre 1927: “La gente di questi paesi è di un tratto e di una cortesia che hanno una sola spiegazione: qui una volta la civiltà era greca. Persino le donne che, a vedermi disteso in un campo come un morto, dicono ‘Este u’ confinatu’, lo fanno con una tale cadenza ellenica che io mi immagino di essere Ibico e sono bell’e contento”. Una bella immagine che ha antichi rimandi. Da qui l’amore profondo di Pavese per la grecità, che non è quella passione o quell’interesse scoperto sui libri ma è completamente vissuto sul luogo.

Il luogo rappresenta un punto di contatto e si stabilisce così un legame geografico forte. Si legge ancora: “I colori della campagna sono greci. Rocce gialle o rosse, verdechiaro di fichindiani e agavi, rosa di leandri e gerani, a fasci dappertutto, nei campi e lungo la ferrata e colline spelacchiate brunoliva. Persino la cornamusa – il nefando strumento natalizio – ripete la voce tra di organo e di arpa che accompagnava gli ozi di Paride…”. Un’altra immagine che ha chiari matrici etniche.
La grecità nei paesi grecanici della Calabria, quei paesi e quella cultura che si racchiudono in Brancaleone, trovano nella testimonianza di Pavese un filtro che è umano e culturale. Il suo vissuto è un vissuto nella geografia di una comunità recuperando quell’humus che si presentava con un sistema di valori che andavano dalla lingua alla tradizione.

Sono appunto la lingua e la tradizione che costituiscono il dato centrale intorno al quale il mito e i simboli si propongono come metafora e come metafisica. L’etnia è una metafisica geografica e una metafisica dell’anima come in Pavese. C’è un vissuto etnico greco in Pavese che si abita come dissolvenza di ogni luogo e come consapevolezza di un vissuto mediterraneo.

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