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Un Progetto “Gli scrittori e l’isola” porrà all’attenzio il valore antropologico della letteratura.

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Mentre si discute sulla casa lombarda di Grazia Deledda che il Mibac dovrebbe considerare di notevole interesse storico e letterario si costituisce un Comitato nazionale per valorizzare e promuovere la letteratura degli “scrittori isolani” in un Progetto dal titolo “Gli scrittori, la lingua, l’antropologia letteraria e l’isola”.

In modo particolare sono interessate la Sicilia e la Sardegna ma si pensi anche a quell’isola di Arturo alla quale Elsa Morante dedicò uno dei suoi libri più splendidi del Novecento o a Gaspare Barbiellini Amidei che fa della sua Elba il Mar arabico nel quale è nato. Uno dei primi riferimenti, comunque, di partenza è Grazia Deledda proprio per le connotazioni antropologiche che i suoi scritti presentano.

Il dialetto (direi i dialetti) sardo e la lingua del “Continente” trovano in Grazia Deledda un cromatismo di metafisiche ancestrali che portando direttamente ad una lettura antropologica dei linguaggi letterari comparati. L’isola (le isole) ha sempre una attrazione in cui il dramma dall’ironico diventa tragico. Come in Luigi Pirandello che dalla sua Sicilia recupera il richiamo delle contaminazioni greche ed arabe, oltre a quelle sicule.

Il romanzo di Grazia Deledda “L’incendio nell’oliveto”. Milano, Treves, 1918, di cui cade quest’anno il centenario della edizione Treves, credo che sia un punto di riferimento forte per una interpretazione non solo linguistica ma anche etno-antropologica in cui il sistema griglia simbolica resta fondamentale.

La terra come religioso patrimonio antropologico e l’acqua come terra nel mare sono i luoghi mitici di una “visionaria” ontologia delle metafore. Il vento e l’uliveto sul mare costituiscono i due chiodi che inchiodano le zattere della traversata. Come avviene nel Pirandello delle “Novelle per un anno” e del teatro. L’sola è la metafora di una scogliera.

Il vento nel paese di Grazia Deledda. L’unica scrittrice italiana. Uno dei temi predominanti, che assume valenze metaforiche e caratterizza la poetica di Grazia Deledda (Nuoro, 27 settembre 1871 – Roma, 15 agosto 1936) è, certamente, il vento. Il vento in un gioco di immagini che riporta ricordi, sogni e sensazioni.

Il vento come onde nell’isola ma anche come fuga. Come attesa. Come infinito gioco lungo i giorni. Nobel nel 1926. Unica scrittrice italiana.

In quasi tutti i romanzi di Grazia Deledda l’incontro tra il vento e l’amore assume una forma emblematica. L’amore e la passione sono, appunto, segno di un attraversamento che si coniugano però con la memoria. Il romanzo di Deledda è costruito sulla memoria. E il racconto diventa un liberarsi dalla storia e un ritrovarsi nel luogo di una memoria che non è più realtà ma favola.

E a volte la favola è anche tragedia. O meglio la realtà che diventa favola nella memoria si consuma nel dolore e nella tragedia. Proprio per questo una componente della narrativa di Grazia Deledda resta la morte. La morte come sentiero misterioso. Si pensi a “Elias Portolu” del 1903: “Il vento leggero che stormiva nei boschi, lontano, gli sembrava una voce confusa, ora dolce, ora paurosa. Che diceva? che diceva il vento? Che mormorava la selva? Egli avrebbe voluto sentir distinta quella voce, e si angosciava, s’inteneriva, s’irritava, non riuscendovi”. Si pensi alle straordinarie pagine de “Il paese del vento” del 1903. Ma il dolore come sentimento e come esperienza lo si riscontra in La via del male del 1896, in “La giustizia“ del 1899.

C’è una ricca bibliografia che Deledda ci ha lasciato. Diverse stagioni si intrecciano e l’intreccio è sempre più un volo di segreti che rivela, tassello dopo tassello, pezzi di verità.

L’amore e la morte sono, dunque, itinerari fissi. “E ricadeva nel ricordo, e sentiva che oramai amava Maddalena fino alla morte, e che alla prima occasione sarebbe ricaduto; ed a questo pensiero gli si rizzavano i capelli per l’orrore. Così fece il viaggio” (in “Elias Portulu”).

Ma l’amore e la morte sono dentro l’emisfero della cultura popolare proposto da Deledda. Non si recupera soltanto un tempo passato, per Grazia Deledda, in quanto il tempo passato si porta dentro il tempo di una civiltà con le sue tradizioni, con i suoi riferimenti e con quella storia che diventa leggenda e mito.

Si pensi alle pagine di “Canne al vento” del 1913: “Solo le foglie delle canne si movevano sopra il ciglione, dritte rigide come spade che s’arrotavano sul metallo del cielo”. Oppure sempre nello stesso romanzo: “Tutto il giorno Efix, il servo delle dame Pintor, aveva lavorato a rinforzare l’argine primitivo da lui stesso costruito un po’ per volta a furia d’anni e di fatica, giù in fondo al poderetto lungo il fiume: e al cader della sera contemplava la sua opera dall’alto, seduto davanti alla capanna sotto il ciglione glauco di canne a mezza costa sulla bianca collina dei Colombi”.

Eccolo tutto ai suoi piedi, silenzioso e qua e là scintillante d’acque nel crepuscolo, il poderetto che Efix considerava più suo che delle sue padrone: trent’anni di possesso e di lavoro lo han fatto ben suo, e le siepi di fichi d’India che lo chiudono dall’alto in basso come due muri grigi serpeggianti di scaglione in scaglione dalla collina al fiume, gli sembrano i confini del mondo.

Si pensi ai racconti di “Sangue sardo”. Si pensi in modo particolare a “Marianna Sirca” del 1915: “Doveva essere bello nelle sere d’inverno stendersi sulle stuoie davanti al fuoco di tronchi, e ascoltare la voce della foresta in colloqui selvaggi col vento”.

Il mondo arcaico è il modo contadino con i suoi costumi e con la sua identità. I personaggi che vi campeggiano sono i personaggi incapsulati nel destino di quella civiltà. Una civiltà viva in una antropologia della memoria: “I santi, Nostra Signora e Gesù stesso in persona pigliano spesso viva partecipazione in molte leggende sarde. Non c’è Madonna che non abbia la sua storia, e quasi tutte le chiese, specialmente le chiesette di campagna, le piccole chiese brune perdute nelle pianure desolate o nei monti solitari, e che hanno l’impronta delle costruzioni pisane o andaluse, sono circondate da una tradizione semplice o leggendaria” (da “La Leggenda di Gonare”)

Perché è in quella civiltà che le trasformazioni risultano lente e nonostante tutto l’amore – passione e la morte non conoscono limiti. L’isola non è soltanto uno spazio geografico reale ma assurge anch’essa come il vento a metafora. Il racconto più che un racconto si fa canto, nenia, lamento in alcune circostanze e nostalgia.

Ci si ritrova a fare i conti con il passato. Il sole è sempre nel tramonto. Ci sono scene che hanno colori suggestivi. Così: “Il sole era tramontato nell’orizzonte di fuoco, le montagne si erano velate e la nebbia saliva con le ombre del crepuscolo, ma la fanciulla non si muoveva. Pareva macchinasse qualcosa di orribile, di fantastico, perché delle nubi starne passavano sulla sua fronte” (in “Sangue sardo”). Scenari e immagini disegnano atmosfere lungo lo scorrere del tempo che invade la vita.

È ne Il paese del vento che gli scenari e le atmosfere si rincorrono. Così come si rincorrono i ricordi e gli amori. Il vento riporta quei giochi della giovinezza o quella giovinezza fatta di avventure e di parole. È proprio in questo romanzo breve che Grazia Deledda puntualizza tutto il suo viaggio. Un viaggio fatto sì di parole ma anche di esistenza.

Dirà: “Non pensavo di negarlo, e neppure di spiegarlo, il mio contegno di quel tempo, tanto più che non riuscivo a spiegarlo neppure a me stessa; e se oggi scrivo questo libro è per giustificarmi, di fronte ai vive ed ai morti, e soprattutto di fronte alla mia coscienza”.

Credo che “Il paese del vento” sia uno dei libri più belli di Grazia Deledda. Qui la sfuggente passione è tenero amore. L’incoscienza è consapevolezza. I miti sono nei ricordi. E le conchiglie riportano echi e lontani desideri. Il paese si vive tra il vento, la luna e il mare. Si riscoprono le danze antiche e le stagioni hanno colori e suoni che attraversano le epoche. Le epoche sono attraversate dai sogni e dai passati amori.

Il mito della terra. “D’inverno era scuro e umido anche il colore del paese: bruciato e rossiccio d’estete: di primavera, invece, e dopo le prime piogge d’autunno, i vecchi tetti coperti di musco ricordavano qualche cosa di preistorico, come appunto un villaggio costruito di macigni, sui quali rinasceva il verde di una vegetazione tenace e vergine di alta montagna”. Il mito delle stagioni e della terra nell’appartenenza ad un popolo.

Tutto ciò è un segno tangibile dei simboli che si tramandano e che continuano a vivere con il nostro tempo perché fanno parte del nostro sangue e del nostro modo di essere. E poi l’amore ritrovato e negato. Ovvero perduto, riconquistato e abbandonato.

“Il paese del vento” è, certamente, un testamento che lascia, di Grazia Deledda una poetica, che ha un singolare approccio nostalgico. È un racconto, appunto, della nostalgia non solo dell’amore.

Ecco l’inciso più marcato. “Noi ci amiamo, fanciullo, ma non osiamo rivelarcelo con parole mortali, perché il nostro amore ha già qualche cosa che ci spaventa, che ci unisce e ci divide con un colore di odio….se io scendessi adesso fino a te, con la mia carne più impura, e ti tendessi le braccia, tu saresti la cosa più mia, e ti radicheresti in me come il bulbo del giglio nel concio che è mischiato alla terra. Ma io non voglio; non posso scendere…Mi piace l’anima tua vasta, profonda e scintillante come questa notte stellata: e con l’anima mia già scura e nebbiosa voglio parlarti…”.

L’inciso finale di questo brano è una forte visione poetica e l’amore stesso si fa poesia. Ecco. “Ti cercherò negli occhi delle altre donne, ma non ti ritroverò quale tu sei. Ti cercherò fuori di me, mentre tu sarai sempre dentro di me: e tu, per questo, non avrai più bisogno di cercarmi”.

La straordinaria sensazione di questo amore – avventura riempie la vita. E se Grazia Deledda ha scritto questo libro per giustificarsi significa che il legame tra la vita e la letteratura è costantemente omogeneo e sentito. E non ci sono rotture forzate tra le due dimensioni. Soprattutto, quando la letteratura si arricchisce di amore e l’amore è la poesia che aiuta a vivere. Alcuni suoi versi recitano:

“Cade una foglia che pare
tinta di sole, che nel cadere
ha l’iridescenza di una farfalla;
ma appena giunta a terra
si confonde con l’ombra, già morta”.

Se il vento è una metafora (come anche in “Canne al vento”) il paese (con la sua solitudine, con il suo andare, con i suoi personaggi, con l’uliveto, con le madri, con i vecchi e i fanciulli, con le vigne) è una àncora e l’isola resta il viaggio e gli amori misurano il tempo. Su queste coordinate Grazia Deledda è un percorso letterario, che individua sentieri. Quei sentieri che vanno attraversati e si attraversano così nel romanzo “L’incendio nell’uliveto” (che tanto ci riporta all’ulivento con il vento di Fortunato Seminara): “Nei momenti di silenzio si sentiva un usignuolo nell’orto: ed era tutta la frescura della notte sulla valle, l’ondulare degli olivi alla luna e il battere del ruscello al tronco del noce; e un pianto e un riso d’amore, un pianto e un riso di dolore, che tremolavano nel suo canto”.

È nei “Racconti sardi” del 1894 che la funzione antropologica assume una valenza scavante in una letteratura del “sentire” e dello “sguardo”. Penso a “Il mago” del 1891: “Filando ritta sulla porta, Saveria vedeva il mare in lontananza, nell’estremo orizzonte, confuso col cielo di platino in estate, nebbioso in inverno: cucendo presso la finestra scorgeva una immensità di vallate stendentisi ai piedi delle sue montagne, e sentiva il caldo profumo delle messi d’oro ondeggianti al sole, e il sussulto del torrente che scorreva fra le roccie e i roveti montani”. O ad “Ancora magie” del 1892. Qui si avverte proprio una assonanza alchemica in cui la favola trasmigra verso il raccontare e il raccontare nel novellare fiabesco che si intreccia con la favola.

Così: “Una sera di novembre, all’imbrunire, me ne stavo seduto al di fuori della nostra casetta, sul carro di un vicino, e guardavo in fondo alla via. Siccome faceva freddo nessuno si degnava tenermi compagnia, e anch’io, certo se non fossi stato spinto da un forte motivo, non sarei rimasto là. Vedevo i monti, già coperti di neve, tutti velati di nebbia, sentivo giù dal cielo fosco stillare un’umidità gelata che trapassava il mio cappotto, e il vento freddo m’imporporava il naso, eppure non mi muovevo. Il campanile nero di San Giuliano, facendo di tanto in tanto capolino fra la nebbia e le tinte fosche dell’imbrunire, mi avvertiva esser l’ora di recarmi a sonar l’ave, eppure io restavo là duro, stecchito, immemore del mio dovere. Ciò che più mi tentava era l’allegro schiopettare del fuoco, dentro, nella nostra cucinetta calda ove mamma preparava un buon minestrone di fagiuoli con cavoli, un vero lusso sapete, aizzando ogni tanto con la sua voce tremula l’asinello che funzionava ancora, monotono e lento, intorno alla macina in un angolo della cucina. Guardavo ogni tanto il tetto basso e umido che fumava e il peronsie del buon fuoco accresceva il mio freddo, pure non mi muovevo, come fossi incantato”.

Un percorso in cui la sintonia tra il c’era una volta e la realtà diventa un primitivo antropologico ed etnico. O ancora si sottolinea il racconto dal titolo “ In Sartu” (ovvero Nell’Ovile) dove il linguaggio è immagine, anzi crea un forte legame tra l’immaginario e il visionari: “Zio Nanneddu Fenu aveva l’ovile dalla parte di Tresnuraghes, cioè quasi due ore distante da Nuoro, in una bella tanca dove l’erba durava fresca sino al mese di giugno. Ogni due o tre giorni la moglie o la figlia, la simpatica Manzèla,1 si recavano a piedi, da Nuoro all’ovile di zio Nanneddu, per godersi una giornata di sole e portare delle vivande al vecchio pastore”.

Si tratta proprio dell’incipit. Così in “Romanzo minimo” dove già nelle prime battute si entra nel cerchio dell’interezza terrigna: “su, in alto, sullo sfondo azzurrino delle montagne calcaree, sotto il cielo fresco di una dolcezza profonda da cielo di paesaggio fiammingo che mi ricorda i quadri più noti di Van-Haanen, la nostra casa verde dominava il villaggio: col suo tetto aguzzo su l’elegante cornicione bianco, le finestre gotiche al secondo piano e il verone che la circondava tutta al primo, esile, alta, la tinta verde smaltata dal sole, pareva una casetta cinese di porcellana, così fresca e allegra che ancora, nonostante il triste caso che vi racconterò e che mi costrinse ad allontanarmene per sempre, il suo ricordo mette una nota gaia nelle memorie della mia fanciullezza”, siamo ancora al 1892.

Ancora nell’Incipit de “La dama bianca”: “ad uno dei più pittoreschi villaggi del Nuorese, noi abbiamo un podere coltivato da una famiglia dello stesso villaggio. Il capo di questa famiglia, già vecchio, ma ancora forte e vigoroso, — strano tipo di sardo con una soave e bianca testa di santo, degna del Perugino, — viene ogni tanto a Nuoro per recarci i fitti ed i prodotti del podere, e ogni volta ci racconta bizzarre storie che sembrano leggende, — invece accadute in realtà tra i monti, i greppi, e le pianure misteriose ove egli ha trascorso la sua vita errabonda, e a molte delle quali egli ha preso parte. Egli si chiama zio Salvatore. Ecco dunque l’ultima storia che egli ci ha raccontato, che molti non crederanno, e che pure è realmente avvenuta in questa terra delle leggende, delle storie cruente e sovranaturali, delle avventure inverosimili.

Era una notte di maggio del 1873. In una capanna perduta nelle cussorgias solitarie del villaggio di zio Salvatore, due giovani pastori dormivano accanto al fuoco semi-spento. Fuori, vicino alla capanna, le vacche dormivano nell’ovile di pietre e di siepe, e la luna d’aprile, tramontando sull’occidente di un bel roseo flavo, illuminava la campagna sterminata, nera, chiusa da montagne nude, a picco”. Per finire in “Macchiette”: “Sotto il bagliore ardente della meriggiana la cantoniera bianca dal tetto rosso, tace, dorme: le finestre verdi guardano pensose sullo stradale bruciato dal sole, e giù dal cornicione di un turchino slavato calano frangie d’ombra d’una freschezza indescrivibile. Lo stradale bianchissimo, disabitato, dai mucchi di ghiaja sprizzanti scintille al sole, serpeggia per una vasta pianura coperta di boschi di soveri”.

Insomma con Grazia Deledda siamo dentro la percezione di una antropologia (atropos) che fa della letteratura un tessuto di conoscenza e il reale diventa memoria e la memoria è il sommerso inevitabile che scava le esistenze e ilo tempo mai del tutto definibile e indecifrabile.

( Pierfranco Bruni, Direttore Archeologo del Mibac e Presidente dell’Istituto di Letteratura Antropologia V.M. B.C.)

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