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La morte di Gustavo Selva scava nella mia storia. Nella mia generazione. Nei miei anni universitari e anche dopo. Era nato nel 1926 a Imola. È morto a Terni il 16 marzo. Ero amico di Gustavo Selva. Eravamo stati per anni i “dialettici” di un cultura che poggiava le sue basi nel mondo cattolico attraverso la centralità della discussione di Aldo Moro. Selva aveva ottenuto il Premio Giuseppe Battista di Grottaglie proprio nelle prime edizioni a metà degli anni Novanta.

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Giornalista, prima di tutto, perché nella notizia costruiva la sua discussione che poneva interrogativi nelle lunghe passeggiate in una Roma che non è più la Roma di quegli anni. Ebbi modo di conoscerlo grazie a Francesco Grisi. Entrambi democristiani ed entrambi cofondatori di quel progetto, insieme a Tatarella, a Fisichella e a chi scrive, che legava cultura e politica. Ovvero Alleanza Nazionale.
L’obiettivo e spesso ne discutevamo era quello di legare la visione tradizionalista morotea – sturziana, non deve sembrare strano, con il pensiero pesante che doveva superare il concetto di rivoluzione delle idee. Siamo rimasti convinti che le idee non sono rivoluzione, ma sono portatrici di consapevolezza e di innovazione.

Più volte ebbi modo di parlare con lui della questione Moro. Scrisse diversi libri. Così come ebbi modo di confrontarmi con lui quando io pubblicai i miei tre romanzi – saggi su Moro. La sua posizione non era per niente ideologica, piuttosto umanitaria e saggia.

Certo, è stato l’uomo che aveva profetizzato l’avanzata del comunismo e che pur perdendo nome, quel comunismo, i comunisti sarebbero rimasti sotto altre maschere. Ma oltre il giornalista, il saggista di una realpolitik, di una visione ampia e articolata dell’Europa che doveva poter guardare al Mediterraneo ed essere Mediterraneo resta, tra l’altro, l’uomo di cultura. Il letterato. Non l’anticomunista con il quale si è disegnata una icona.

Anticomunista lo è stato, lo è, lo sarà come lo saremo tutti quelli che hanno fatto parte di una cordata cristiana ed eretico – cattolica, soprattutto durante il caso Moro, (l’ironia è tragica: muore il giorno dell’anniversario della strage di Via Fani del 1978), ma Gustavo Selva trovava nel linguaggio un processo ecumenico verso la letteratura. Conosceva benissimo Petrarca.

Nel 2004 scrisse delle pagine sublimi su un Petrarca europeista e cristiana proprio quando si chiedeva all’Europa di rivendicare la sua eredità cristiana. Gustavo aveva preso come riferimento proprio Petrarca. Lo considerava poeta ma anche intellettuale “agli albori dell’età moderna”. Petrarca non l’antipolitico. Ma il cristiano che con le sue dolce fresche e chiare acque raccoglieva la voce dell’umanità dell’uomo moderno che entrava nella contemporanea. Una storia complessa ma vitale, forte, pesante, metafisica. Una identità senza allegorie e mai leggerezza. Una Nazione e mai un paese.

Da Moro a Petrarca. Un percorso intorno al quale abbiamo disegnato anche il nostro viaggio culturale. È andato via un politico, un giornalista, un uomo di cultura nella cui cultura c’era la saggezza dei saperi. Un amico.

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