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Uno degli eventi più conosciuti della quotidianità giapponese è sicuramente la cerimonia del tè, che da secoli ha trasceso il mero atto di dissetarsi per assumere un particolare valore estetico e spirituale.

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In questo video sono riportati alcuni momenti di questa affascinante cerimonia eseguita dalla maestra Kuroda Sōbi della Scuola Urasenke in occasione della “Festa dell’Hanami” svoltasi a Raiano (AQ) sabato 11 aprile. La Maestra vive a Roma da molti anni e vanta una esperienza trentennale in quest’arte, collaborando attualmente con la Associazione di Promozione Culturale tra Italia Giappone “Tondo Rosso”. L’arte di preparare e servire il tè è conosciuta come Cha-do o Sa-do (Via del té) oppure come Cha no yu, che significa letteralmente “acqua calda per il té”. Il tè arrivò in Giappone insieme al buddhismo dalla vicina Cina nella prima metà del VI secolo, impiegato dai monaci per mantenersi vigili e svegli durante la meditazione. Ikkyuu (1394-1481), una delle figure fondamentali del buddhismo, diffuse il tè anche al di fuori della pratica meditativa e dai monaci zen l’usanza di bere tè si diffuse ai samurai, che erano allora la classe dominante. Il tè, che prima era apprezzato per le sue qualità medicinali, diventò una bevanda per persone raffinate da gustare per il suo aroma e gusto. Così nacque, a partire dal XIV secolo, il toucha, un gioco di società nel quale dieci tazze di tè venivano preparate con quattro diverse qualità di tè e gli ospiti dovevano indovinare la provenienza di ogni tazza, con una penitenza per il perdente. Il tocha si trasformò progressivamente in una riunione più seria e lo scopo divenne quindi quello di godere l’atmosfera solenne in cui i partecipanti gustavano il tè mentre apprezzavano opere d’arte e oggetti artigianali cinesi esposti in uno studio (shoin). Il tè era diventato una bevanda per socializzare, un primo passo verso l’attuale cerimonia del tè. I samurai, già abituati a declamare poesia in stile renga, accolsero di buon grado il tè e il suo rituale, trasmettendovi austerità, sentimento espresso nella frase “karekajikete samukare”, che mostra la bellezza del sole che sorge durante un freddo mattino d’inverno su una landa desolata. Verso la fine del XV secolo un discepolo di Ikkyuu, Murata Shukou (1422-1502), divenne maestro del tè sotto lo shogun Ashikaga Yoshimasa (1436-90). Egli propose un altro tipo di cerimonia, più tardi chiamata wabicha, che si basava maggiormente sulla sensibilità giapponese alimentata dallo spirito del buddhismo zen, il cui fine è, in poche parole, la purificazione dell’anima nell’unione con la natura. Ceramiche e utensili in stile cinese vennero sostituiti da altri di produzione giapponese e con uno stile molto più rustico e imperfetto. E’ il secondo passo verso la cerimonia del tè. Intanto, la classe dei mercanti assumeva maggiore importanza. Nella città commerciale di Sakai, vicino a Osaka, viveva un venditore di armi Take no Jouou (1502-55), che poteva vantare una collezione di splendidi oggetti per la cerimonia del tè da far impallidire molti maestri, ma che aveva mantenuto intatto lo spirito del wabicha trasmessogli dalla poesia renga. Egli pensò per primo di costruire una stanza per il tè. Fu durante il periodo Momoyama, nella seconda metà del XVI secolo, che un allievo di Jouou anch’egli nativo di Sakai, Sen no Soeki detto Rikyuu (1522-91), finalmente diede alla cerimonia del tè la forma attuale, quella di una vera forma d’arte, partendo dal wabicha. Egli ridusse la stanza del tè ad un piccolo spazio separato dal mondo esterno, con un ingresso molto basso in modo che tutti dovessero inchinarsi agli altri prima di entrare, senza differenze tra nobili e gente comune. Oda Nobunaga (1534-82) fu il primo ad assumere Sen no Rikyuu come maestro del tè.

Dietro il canone estetico della cerimonia del tè di Rikyuu c’era il pensiero di riportare la cultura giapponese alla sua radice (anche se alcuni ritengono fosse stato influenzato dal cristianesimo e la cerimonia del tè ispirata all’eucarestia), la cerimonia alla semplicità e perfezione dell’attimo: “Qui e ora, nella purezza dell’attimo”. Un poema del monaco Dairin Soutou afferma che “il sapore del tè e il sapore dello zen sono uno solo”. La morte di Rikyuu è dovuta unicamente alla sua coerenza con lo studio dello zen fatto presso il Daitokuji. Toyotomi Hideyoshi, che aveva riunificato il Giappone nel 1590, avrebbe voluto un rituale più sfarzoso e interpetò le ritrosie di Rikyuu come una critica al suo potere. Hideyoshi gli ordinò di suicidarsi tramite seppuku ed egli eseguì il gesto estremo senza titubanza. Alla morte di Rikyuu, suo genero Shoan ereditò la casa di famiglia a Kyoto. Quando questi si ritirò, fu il nipote di Rikyuu, Soutan, a succedergli. Quando anche Soutan si ritirò, divise la proprietà fra i tre figli. La parte anteriore dell’edificio principale venne dato a Koshin Sosa, Senso Soushitsu ereditò la parte posteriore, mentre una casa sulla strada Mishankoji venne data a Ishio Soshu. Le scuole iniziate dai tre figli vennero così chiamate Omotesenke (anteriore), Urasenke (posteriore) e Mushanokoujisenke. Anche alcuni discepoli di Rikyuu formarono delle scuole: la scuola Enshuu fondata da Kobori Enshuu, la scuola Sekishuu da Katagiri Sekishuu e la scuola Souhen da Yamada Souhen. Tuttavia, con il collasso del sistema feudale, molte di queste scuole caddero in sventura ed oggi solo la scuola Urasenke gode di un buon seguito e si è diffusa in tutto il mondo, rappresentata dal maestro Sen Soushitsu della 15° generazione della famiglia Sen.

Oggi come ieri, La cerimonia del tè non è un semplice passatempo per chiacchierare ma realizza piuttosto uno dei tanti metodi con cui si esprime la spiritualità nipponica. Anche se le varie scuole differiscono le une dalle altre per i dettagli e le regole, l’essenza sostanziale della cerimonia è rimasta tale a quella dei secoli scorsi, a partire dai quattro principi fondamentali da perseguire, che sono: wa, armonia tra le persone e con la natura, armonia degli utensili e la maniera in cui essi vengono usati; kei, rispetto verso tutte le cose e sincera gratitudine per la loro esistenza; sei, purezza interiore, ma anche nitore e pulizia delle cose che ci circondano; jaku, tranquillità e pace della mente, conseguente alla realizzazione dei primi tre principi. Alla base c’è quindi l’armonia con la natura, ed è per questo che la cerimonia si svolge in piccole costruzioni in legno, bambù e paglia, con finestre e porte costituite da pannelli scorrevoli in legno e carta di riso e pavimento ricoperto da tatami di paglia, ubicate all’interno di giardini di aspetto totalmente naturale, con piante fresche, acque e rocce. Gli utensili, le tazze sono in materiale naturale e variano durante i diversi mesi dell’anno per essere sempre in accordo con la stagione. La cerimonia è caratterizzata da un’estrema semplicità: la casa del tè è quasi spoglia nella sua totale mancanza di arredi e nel suo rigore. Gli utensili, solitamente poco decorati, hanno forme estremamente semplici e funzionali, in linea con il gusto dei giapponesi, che ammirano più il garbato riserbo della vistosa ostentazione. Un preciso rituale guida non solo l’abile tecnica del maestro di cerimonia, che ha studiato per anni e anni, ma anche i gesti degli ospiti intervenuti, che sorbiranno il loro tè seguendo precise regole. La casa del tè (sukiya) comprende una sala per il tè (chashitsu) e una stanza per la preparazione (mizuya), una sala d’attesa (yoritsuki) e un sentiero (roji) che, attraverso il giardino, porta fino all’ingresso della casa del tè. Il roji si sviluppa come percorso, al tempo stesso fisico ed iniziatico, che conduce sia al luogo che alla dimensione spirituale richiesti per la cerimonia del tè. Pertanto la disposizione dei suoi elementi ha la funzione di preparare la mente dell’ospite, inducendo in lui lo stato di concentrazione necessario ad esprimere l’evento in tutta la sua complessità. Roji significa “corridoio, vicolo” ma anche “sentiero cosparso di rugiada” e indica inoltre, a conferma della stretta relazione fra giardini e pratica spirituale, il corridoio di collegamento dove, nel corso di uno dei rituali di iniziazione al buddhismo Shingon, i novizi attendono prima di entrare nell’una o l’altra delle due sale nelle quali si svolge la cerimonia. Le pietre da passo (tohiishi) che tracciano il sentiero assumono un ruolo determinante. Esse uniscono ad una funzione pratica – proteggere reciprocamente il muschio dalla pressione delle calzature ed i piedi del visitatore dal fango – quella spirituale ed estetica di stimolo ad uno stato di consapevolezza e di contemplazione, rallentando il passo e favorendo una sosta. Esse scandiscono e sottolineano il progressivo allontanamento dal mondo quotidiano.

I principali utensili, generalmente dei veri e propri oggetti d’arte, sono la ciotola per il tè (chawan), il contenitore del tè (chaire), il frullino di bambù (chasen) e il mestolo di bambù (chashaku). Di solito vengono indossati abiti con colori discreti ma nelle occasioni di grande solennità gli invitati vestono un kimono decorato con il mon familiare e le bianche calze tradizionali giapponesi (tabi) e devono portare con sé un piccolo ventaglio pieghevole e un pacchetto di fazzolettini di carta (kaishi). La cerimonia del tè comprende di solito una prima parte nel corso della quale viene servito un pasto leggero di sette portate (kaiseki), un breve intervallo (nakadachi), il goza iri che è la parte principale della cerimonia e durante la quale viene servito un tè denso (koicha), e l’usucha durante il quale viene servito un tè meno denso del precedente. Tutta la cerimonia completa dura circa quattro ore; ma spesso si svolge soltanto l’usucha, il quale richiede al massimo un’ora. Gli invitati, in numero di cinque, si riuniscono nella sala d’attesa. L’ospite li raggiunge e li conduce per un sentiero attraverso il giardino fino alla sala del tè. Lungo il sentiero vi è una conca in pietra piena d’acqua, dove gli invitati si lavano le mani e si sciacquano la bocca. L’entrata nella sala è così piccola che essi devono superarla in ginocchio, in un atteggiamento di umiltà che rende tutti uguali, senza distinzione di censo e classe sociale. Nell’entrare nella stanza, che è dotata di un focolare fisso o di un braciere portatile per il bollitore, ciascun invitato si inginocchia davanti al tokonoma e fa un rispettoso inchino. Poi, tenendo il proprio ventaglio pieghevole davanti a sé, ammira il kakejiku appeso nel tokonoma; quindi rivolge nello stesso modo il proprio sguardo verso il focolare o il braciere. Non appena tutti gli invitati hanno terminato di ammirare l’arredamento prendono posto, a cominciare dall’invitato più importante che prende posto vicino all’ospite. Dopo lo scambio dei convenevoli, viene servito il pranzo con dei dolci per terminare il pasto leggero. Dietro suggerimento del loro ospite, gli invitati si ritirano e vanno ad aspettare sulla panchina che si trova fuori, nel giardino interno, vicino alla sala del tè. Dopo l’attesa, l’ospite fa suonare per cinque o sette volte il gong sospeso vicino alla sala per indicare che la cerimonia principale sta per iniziare, gli invitati si alzano in piedi ed ascoltano attentamente; poi, dopo aver ripetuto il rito della purificazione alla vasca piena d’acqua, entrano di nuovo nella stanza. I pannelli di bambù, sospesi all’esterno davanti alle finestre vengono ritirati da un assistente al fine di illuminare l’ambiente, Il kakejiku è sparito e nel tokonoma è stato sistemato un vaso con un ikebana. Il recipiente per l’acqua fresca e la scatola in ceramica del tè sono al loro posto prima che l’ospite entri, portando la ciotola per il tè contenete il frullino di bambù e il mestolo per il tè.

Gli invitati guardano e ammirano i fiori e il bollitore come avevano fatto all’inizio della cerimonia. L’ospite si ritira nella stanza per la preparazione e ritorna ben presto con il recipiente per l’acqua, il mestolo, e un appoggio per il bollitore o per il mestolo. Asciuga poi la scatola del tè e il mestolo con un telo speciale, chiamato fukusa e lava il frullino nella ciotola del tè contenente acqua calda presa dal bollitore con il mestolo. Vuota quindi la ciotola, versando l’acqua nel recipiente vuoto che aveva portato in precedenza e l’asciuga con un chakin, un pezzo di tela di lino. Quindi prende la scatola del tè e con l’apposito cucchiaio prende per ogni invitato tre cucchiai pieni di matcha (una polvere finissima di foglie di tè di colore verde scuro, dal gusto forte e amaro) poi raccoglie un mestolo di acqua calda dal bollitore e ne versa circa un terzo nella ciotola e il resto di nuovo nel bollitore, infine, rimescola il tutto con il frullino fino a che non si addensa, diventando come un puré di piselli sia per la consistenza che per il colore. Il tè così preparato si chiama koicha e non è un infusione, come nel caso del tè occidentale, ma una sospensione di polveri nell’acqua; per questo motivo e per il fatto che il matcha viene prodotto utilizzando germogli terminali della pianta, la bevanda ha un effetto notevolmente eccitante tanto da essere utilizzata, oggi come in passato, dai monaci zen per rimanere svegli durante le meditazioni. Il matcha usato proviene dalle giovani foglie di piante di tè che hanno da venti a settanta anni o anche più. L’ospite depone la ciotola al suo posto, presso il focolare o il braciere, e l’invitato più importante si avvicina in ginocchio per prenderla; si china, quindi, davanti agli altri invitati e mette la ciotola sul palmo della sua mano sinistra, sorreggendone un lato con la mano destra. Dopo averne bevuto un sorso, ne loda l’aroma, quindi beve ancora uno o due sorsi. Pulisce il punto della tazza da cui ha bevuto con il kaishi e passa la ciotola al secondo invitato, che beve e asciuga la tazza esattamente nello stesso modo. La ciotola viene così passata al terzo, al quarto e quinto invitato perché tutti possano gustare il tè. Quando l’ultimo invitato ha finito, porge la ciotola al primo, che a sua volta la restituisce all’ospite. L’usucha differisce dal koicha nel fatto che il matcha usato proviene dalle giovani foglie di piante che non hanno più di tre o cinque anni, la bevanda che ne deriva è verde e schiumosa ma le regole osservate nel corso di questa cerimonia sono simili a quelle seguite durante quella del koicha, con la differenza che il tè viene preparato individualmente per ciascun invitato con due cucchiai o due cucchiai e mezzo di matcha. In questo caso ogni invitato è tenuto a bere interamente la sua parte, dopodichè pulisce la parte della tazza che ha toccato con le labbra con le dita della mano destra e poi si asciuga le dita con il kaishi. Dopo aver trasportato gli utensili fuori dalla stanza, l’ospite in silenzio si inchina davanti agli invitati, indicando che la cerimonia è finita e questi lasciano il sukiya accompagnati dal loro ospite.

Sono queste solo alcune brevi note relative alla cerimonia, che però danno già una idea di quanto la semplice preparazione di una tazza di tè è diventata un’esperienza estetica di notevole spessore spirituale e un emblema dell’estensione della pratica meditativa ad ogni atto o attività della vita quotidiana propugnata dalla dottrina zen. L’estrema lentezza e concentrazione dei gesti, che caratterizzano questo evento artistico, corrispondono alla creazione di uno spazio e di una situazione che permettano al praticante di realizzare l’illuminazione e di riuscire a realizzare, sia pure per un periodo limitato di tempo, un “distacco” dagli impegni e dalle preoccupazioni quotidiane.

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