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E’ tempo di raccolta delle olive per molti nostri concittadini; ripercorriamo allora insieme tutto il percorso che va dalla fioritura alla spremitura delle olive per cercare di comprendere meglio anche i numerosi termini dialettali che vengono utilizzati nell’ ambito di questo naturale processo produttivo. A partire da maggio sui ramoscelli di ulivo (li capiscioli) si ha la fioritura delle gemme, che nel nostro dialetto viene detta “ntrata”.

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Una buona “ntrata” sarà foriera di una buona raccolta, sempre che grandine, siccità o parassiti come la mosca olearia (lu puntarulu o la vammacedda) non la rendano vana. Prima della raccolta ancora oggi sotto ogni olivo si crea un’ area pulita per meglio individuare le olive che andranno a cadere sul terreno. Gli arnesi per creare quest’ area circolare, che in dialetto si chiama “era”, cioè aia, da secoli sono sempre gli stessi: il rastrello (l’ aristieddu) ed il tirabrace (lu ruezzulu). Il margine circolare perimetrale dell’ era prende il nome di “cigghjaru”.

Quest’ ultimo è caratterizzato da un bordo rialzato di terriccio tale da impedire, in caso di pioggia, che le olive possano essere trascinate dall’ acqua. La raccolta che in dialetto si dice la “ccosa” inizia proprio a livello del “cigghjaru” dove per ragionevoli motivi di lontananza dal tronco le olive sono più rade. Questa operazione in genere viene svolta dalle donne “l’ antu tli femm’ni” dirette dalla”fattora”. Gli uomini invece vanno a costituire la squadra “tli scalisciaturi” muniti di scale lunghe e strette a pioli distanziati ed a cui tocca il compito della “spilatura” e della “spruiatura” cioè della raccolta delle olive direttamente dall’ albero. Una volta raccolte, le olive vengono portate al frantoio, “lu trappitu”. I frantoi di una volta erano molto caratteristici.

All’ ingresso vi era un primo ambiente, l’ olivaio, in cui vi era una grande bilancia, una basculla, su cui venivano misurate le olive. Più avanti e situato su un piano inferiore, vi era il frantoio vero e proprio che ospitava la macina “la mulazza” per la molitura delle olive.
La “mulazza” aveva forma circolare ed era molto ampia perchè veniva azionata dal moto circolare degli animali a cui era legata. La pasta residua a seguito della molitura veniva posta in un contenitore di legno “la mattra” su cui si riempivano i fiscoli “li fiskuli” che erano una sorta di cestini a forma di dischi che venivano a formare una colonna, “lu cuenzu”, che veniva compressa sotto un torchio contro una trave, “lu cappieddu”. Il torchio aveva quindi il compito di spremere l’ olio presente nella pasta delle olive.

All’ interno del frantoio vi erano anche altri locali come la “sciaja” che era il luogo destinato ad accogliere le olive da macinare; “lu nuzzaru” nel quale si depositava la sansa residua dalla spremitura delle olive e “lu sintinaru” cioè l’ inferno del frantoio in cui era possibile recuperare per decantazione, in delle cisterne, una frazione d’ olio di cattiva qualità, “la sintina”. Una volta illustrato il “trappito” cerchiamo di conoscere le varie fasi della molitura delle olive. Una volta arrivate al frantoio le olive venivano depositate nella “sciaja”.

Successivamente venivano poste nella “mulazza” per la molitura dove, una volta macinate, si formava la pasta. Questa pasta veniva versata sulla “mattra” e quindi si procedeva a riempire i fiscoli di giunco e ad incolonnarli sotto il torchio, si “armava lu cuenzu”. Le operazioni venivano svolte dai “fiskulari” sotto la guida “t’lu nagghjiru”, il capo dei frantoiani.

La stessa pasta successivamente veniva posta ad una seconda o anche terza spremitura, ripetendo tutte le operazioni sopracitate. L’ olio che colava dai torchi finiva in dei pozzetti cilindrici chiamati “ancili”. L’ olio veniva poi raccolto in recipienti di zinco, “li zzirri” o in un deposito in muratura detto “postura”. La pasta residua non più suscettibile di ulteriore spremitura costituiva la “moria” dalla quale veniva ricavata la “sintina” in apposite vasche di decantazione. Infine la feccia “la fezza” andava a finire in un pozzo chiamato “capuvientu” che in genere era costituito da una fenditura naturale venendo così definitivamente eliminata.

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