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Figura tra le più notevoli della narrativa italiana del primo Novecento, sicuramente la più grande scrittrice sarda ed una delle maggiori della intera nostra letteratura, la cui opera ebbe contrastanti valutazioni da parte dei critici, continuatrice del verismo sul quale, quando già quell’esperienza trascolorava nel panorama letterario italiano, seppe innestare una personale sensibilità, Grazia Deledda è l’unica scrittrice italiana ad essere stata insignita del premio Nobel per la letteratura. “Per la sua potenza di scrittrice, sostenuta da un alto ideale, che ritrae in forme plastiche la vita quale è nella sua appartata isola natale e con profondità e con calore tratta problemi di generale interesse umano“, così, fra l’altro, alla consegna del premio, motivò il Prof. Henrik Schuck dell’Accademia Svedese.

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L’opera di Grazia Deledda fu ispirata da un profondo amore verso la sua terra, verso il suo paesaggio, di cui conosceva suoni, colori, profumi (“Quel giorno Cosima imparò più cose che in dieci lezioni del professore di belle lettere. Imparò a distinguere la foglia dentellata della quercia da quella lanceolata del leccio, e il fiore aromatico del tasso barbasso da quello del vilucchio. E da un castello di macigni sopra i quali volteggiavano i falchi che parevano attirati dal sole come le farfalle notturne dalle lampade, vide una grande spada luccicante messa ai piedi di una scogliera come in segno che l’isola era stata tagliata dal continente e tale doveva restare per l’eternità. Era il mare che Cosima vedeva per la prima volta“…“Cosima”), verso la sua gente di cui con vigore, incisività ed espressività, con uno stile sobrio, talvolta drammatico, così bene descrisse i costumi ed i problemi. Il male, l’inevitabilità del male, il rimorso, il sacrificio, il riscatto, le passioni familiari, la crisi della famiglia patriarcale, sono i temi fondamentali dei suoi romanzi, in cui i protagonisti, pur immersi nella vita comune e paesana, si muovono in un’inquietante atmosfera leggendaria.

La Sardegna, selvaggia ed affascinante, tanto primitiva quanto umana,descritta dall’autrice, così immersa nelle antiche tradizioni e nei valori familiari e religiosi, pure sfugge al reale; trasfigurata dall’animo dell’autrice da mito dell’isola diviene isola del mito, e gli stati d’animo dei personaggi sono sempre in suggestiva simbolica corrispondenza con il paesaggio (basti pensare alla notte incombente quando più pressante diviene l’angoscia di Elias Portolu, attanagliato dalla passione per la stessa donna amata dal fratello, o al rumore del vento che accompagna la passione peccaminosa nel romanzo “La madre”, così simile al vento di brughiera delle “Cime tempestose” di Emily Brontë). Nell’opera della Deledda i personaggi finiscono, così, per perdere i connotati regionali, pure tanto marcati (vivono nelle tancas, si esprimono in dialetto, sono fortemente legati alle tradizioni e alle credenze della loro terra), divenendo emblemi della condizione umana; tumultuosamente, fatalmente consapevoli di errare, pure essi non riescono ad evitare il peccato e, spinti verso il male, infrangono i valori tradizionali, sono indotti nell’errore, alla colpa che li attanaglia, che li tormenta, che suscita poi il rimorso, cui seguono necessariamente il pentimento e l’espiazione purificatrice.Una volta iniziata la lettura di Deledda è difficile a non consumare un mucchietto dei suoi libri uno dopo l’altro. Sono romanzi di ‘genere’, come lo sono quelli di Karl May, o Conan Doyle o Stephen King,libri che ci portano in un mondo pieno di problemi che non assomigliano per niente ai nostri propri problemi. Il genere di Grazia Deledda era il romanzo pastorale. L’ambiente è la Sardegna intorno alla fine del penultimo secolo, una società nettamente divisa in classi. La materia principale per i conflitti consiste in denaro e sesso. Come contrappunto c’è un’aspirazione piuttosto medioevale alla purezza e l’ascesi. I protagonisti nei romanzi deleddiani sono delle persone spinte da passioni, ma le loro azioni rimangono sempre trasparenti e comprensibili. Il Fato colpisce sempre in modo plausibile ed ad un momento ben programmato. La scrittrice era una donna interessante, che non è mai stata apprezzata per il suo valore reale, neanche dopo aver ricevuto il premio Nobel (nel 1926, per il labirintico Canne al Vento). Sia nella sua persona storica che nella sua opera sembrano presenti tutte le condizioni per una riscoperta. Grazia Deledda proveniva da una famiglia di nobiles a Nuoro, il capoluogo della “famigerata” Barbagia sarda. Come di solito per le donne di alta estrazione dell’allora Sardegna, non percorse più di quattro classi della scuola elementare. Già in età molto giovanile creava una considerevole distanza intellettuale tra se’ e il suo immediato ambiente.

La scrittrice si limita,nelle sue opere, alla descrizione,ora con osservazioni generiche di eventi e retroscena, ora in dettagli ad alta risoluzione i quali hanno l’effetto di convincere il lettore che lei è stata davvero lì a registrare le cose,in che modo viene seminato il vento e come, in conseguenza, viene raccolta la tempesta. La Sardegna, il retroscena per tutti i romanzi di Grazia Deledda, era,ed è tuttora, una nicchia culturale di Europa, una zona dove la feudalità è proseguita indisturbata fino al tardo Novecento e dove l’arbitrio umano e divino è tuttora un fenomeno del tutto normale. La scrittrice dichiara la sua appartenenza al passato, il suo sguardo verso il “primitivo”, il lontano sia del tempo sia dello spazio; ma la qualità della sua scrittura rapida, incisiva, essenziale, e la costante sintonia tra personaggio e paesaggio, la pongono a buon diritto nella letteratura verista e postverista, accanto a Verga e a Fogazzaro. Anche per questo Eleonora Duse scelse un suo testo, Cenere, per la sua prima e unica incursione nel mondo del cinema; esperienza che così riconosce alla Deledda un ruolo centrale nella sperimentazione dei nuovi linguaggi elaborati dall’incontro tra letteratura, teatro e cinema.

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