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Quell’agosto festeggiavo i miei vent’anni e rivedevo i miei zii che – da Parma – scendevano a trascorrere qualche giorno di vacanza nella casa dei miei genitori, sulla litoranea salentina.

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Allora Grottaglie era per me una “espressione geografica”, per dirla come il principe di Metternich: sapevo che esisteva e nulla più. Un giorno, dopo la calura del solleone, venne giù una pioggia fitta, che ci impose di trovar qualcosa da far fare ai parenti vacanzieri. Fu mio padre a proporre una gita a Grottaglie “a vedere le ceramiche” e fu sempre lui a delegarmi al ruolo di accompagnatore, unico nipote allora ad avere la patente. La pioggia aveva smesso e un pallido sole faceva sperare in una serata fresca, salimmo in auto e partimmo, mentre mio padre continuava a spiegarmi la strada per raggiungere Grottaglie. Nonostante le buche di Lizzano, le salite di Fragagnano e gli incroci di Torricella arrivammo sani e salvi a Grottaglie, seguii i segnali che ci dirigevano al quartiere delle ceramiche e parcheggiai. All’epoca “li camennere”, specie in quelle giornate estive metereologicamente bizzarre, era pieno di turisti e le botteghe erano aperte sino a mezzanotte.

Ero oramai rassegnato ad un paziente pellegrinaggio tra botteghe tutte uguali quando entrai in quella che si affacciava sull’ampia curva di via Crispi e fui clamorosamente smentito. In un locale che sembrava la grotta di Alì Babà erano accolte una quantità inverosimile di manufatti policromi: acquasantiere, albarelli, piatti e brocche, ognuno diverso dall’altro e tutti arricchiti da minuti decori e figure colorate.
Ci accolse il titolare della bottega, colui che avrei imparato a chiamare “Mestu Mimino”, con un sorriso affabile ed una disponibilità scevra da secondi fini commerciali, spiegando ai miei parenti impiego e funzione di ogni pezzo di forma tradizionale, raccontando perché alcune bambole avessero il seno scoperto ed altre i baffi e la spada, il perché del gallo rampante sui piatti, il segreto dello srulo e la bonaria ironia del fischietto del carabiniere. I miei zii erano affascinati ed io più di loro, tanto da tornare in quella bottega la settimana dopo, accompagnando un amico che voleva comprare qualcosa di tipicamente locale. Salutai Mestu Mimino e lui mi riconobbe, chiedendomi notizie dei miei zii, cominciammo a parlare e quella attività, che fino ad una settimana prima mi sembrava equiparabile al mio modellare il DAS alle scuole elementari, si dispiegava davanti ai miei occhi ricca di compiti precisi e particolari affascinanti: l’incessante movimento del piede del tornitore, la precisa armonia del decoratore, la capacità di indovinare il colore dello smalto dopo la cottura, l’infinita pazienza di chi modellava l’argilla riuscendo – con abili tocchi – a plasmarla secondo il suo volere.

Mestu Mimino sembrava un pozzo senza fondo di conoscenze, mi mostrò la sua copia del volume di Ninina Cuomo de Caprio per farmi capire la differenza tra un “pitale” e un “cammautto”, ma io mi perdevo dietro le sue dita, mentre con pochi tocchi dava vita ad un San Michele o riempiva il petto di un gallo rampante. Tornai spesso, da allora, in quella bottega, ed ogni volta imparavo qualcosa.

Oggi Mestu Mimino non c’è più, anni fa un male crudele e impietoso lo ha strappato anzitempo alla sua arte, e salendo via Crispi non lo si vede più, nel suo camice bianco, sbirciare al di sopra dei suoi occhiali chi varca la soglia della bottega, passando dall’abbacinante calura esterna alla fresca penombra interna, eppure ancora lo ricordo, e se oggi Grottaglie ha così tanta parte nella mia vita, è anche grazie a lui.

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