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C’è un forte pregiudizio, spesso legato a mancanza di approfondimento, nei confronti della musica dell’America latina.

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Una superficie tanto vasta, quanto intricata e misteriosa, in cui coesistono hit italiane snobbate dalla nostrana intellighenzia – lì splendenti di luce propria, e tradizioni acustiche ancestrali provenienti da foreste e natura selvaggia. Quando parliamo di musica latina, automaticamente riconduciamo il pensiero a Manu Chao sul palco del Concertone del Primo Maggio, ai remix con flauto di Pan della colonna sonora de “Il Gladiatore”, ai vocalizzi lacrimosi degli Aventura. Non piuttosto a ritmi indigeni, folkloristici, discendenti da un passato di colonizzazione spagnola che ha fuso elementi antropologici europei ed amazzonici.

Il grado di confusione e stereotipazione è elevato: non tutto ciò che è cantato in spagnolo si identifica ipso facto in un ballo di gruppo o un canto di protesta; la vicinanza topografica dell’Argentina al Cile, del Perù al Brasile, non ne rende identiche le sonorità; l’estetica latino americana, nel 2019, non è quella di un poncho di lana e un berretto coi pom pon.
Un numero sempre maggiore di giovani artisti sudamericani sta riuscendo nell’impresa di abbattere tale retaggio, traslando all’oggi l’eredità delle proprie radici, attualizzando iconografie ataviche e rendendo noti al mondo messaggi secolari. Alcuni di loro sono nati in Europa, ma hanno vissuto nel continente d’origine delle proprie famiglie, figli dell’interscambio culturale globalizzato. Il merito di questi interpreti è di presentare a un mondo digitalizzato origini dimenticate, costumi, ritualità e danze tipici in versione 2.0; non una macchiettistica rievocazione storica, ma lo studio di un popolo e la rielaborazione delle sue espressioni. I Dengue Dengue Dengue, ad esempio, si esibiscono indossando coloratissime maschere che richiamano il millenario artigianato peruviano; Chancha Via Circuito (progetto dell’argentino Pedro Canale), produce elettronica campionando il rumore della selva boliviana e degli uccelli dei boschi del Belize.

Fra i protagonisti di questo nuovo Rinascimento, Nicola Cruz è un altro nome eccellente. Nato in Francia, ma da subito trasferitosi in Ecuador con i genitori, tesse il suono come trame di un canto (semi-cit.). Intinge dischi di mitologia, simbologia, leggende delle Ande e spiritualismi, destreggiandosi abilmente fra bassi da clubbing e canti degli antichi. Per fare un esperimento e dimostrare la perpendicolarità generazionale del suo lavoro, ho fatto ascoltare a mio padre – che ha trent’anni in più di me, la Boiler Room che ne ha consacrato le doti a Tulum (non rabbrividite, con quella di Solomun ha in comune solo la localizzazione). Il responso rispetto ad un prodotto moderno, ma dal ceppo tribale è stato positivo, comprendendone il clima complessivamente oscuro, i controtempi e le manipolazioni computerizzate di voci latineggianti. E se è vero che Cruz non inventi nulla di nuovo, se consideriamo il caso di scuola Jaariana “Mi Mujer”, brilla nel perpetuare il lascito dei propri antenati ammorbidendone i tratti, sintetizzandolo in chiave personale e rendendolo in grado di far tendenza a secoli di distanza.

Il fiore all’occhiello della sua produzione è l’abilità di alterare lo sfondo dietro chi si trovi ad ascoltarla: le mura di una camera a Milano diventano esotiche e fluide, quando flauti e corde pizzicate immergono nella magia di arti cosmologiche, nel flusso di un torrente, quando le percussioni scandiscono i tempi della vita di un villaggio esotico. Si riesce quasi a sentire il profumo dei fiori, il calore del sole, una sensualità ipnotica e avvolgente ritmata da tempi spezzati. Cruz amalgama ingredienti di ricette differenti raccolte all’ombra di dorate latitudini, attingendo alla tradizione africana, colombiana, brasiliana (non mancano tocchi di bossa nova), messicana. Sa poggiarsi leggero, creando atmosfere cristalline tanto evocative da divenire emozionanti, per poi introdurre basi elettroniche da ballare con le braccia al cielo, in connessione fra terreno e sovrannaturale. A volte psichedelico, altre liturgico, è uno stregone in continua esplorazione che in tre album – il più recente, “Siku”, è di questo gennaio – ha saputo affermare la qualità della propria ricerca ed il fascino stellato della propria immaginazione.

Nicolas Jaar ne è stato mentore e mecenate, collaborando assieme sulla scomparsa label Clown&Sunset e patrocinandone diverse release. Nell’arco di un triennio, Cruz ha guadagnato il favore internazionale, passando da uno status poco conosciuto (presente a BUKA nel 2016, in un set di cui ancora ben si racconta), alle pubblicazioni sulla ZZK Records e ai palchi del Sonàr e dell’ADE. È il Mercurio dai piedi alati che degli antichi messaggi divinatori si fa portavoce: favorito dall’enorme popolarità acquisita dal genere in tempi piuttosto brevi, è stato eletto sciamano della cumbia digitale.

Contrariamente al carattere misurato di “Siku”, in alcuni tratti lento e molto caratterizzato dal pathos della musica della tradizione, il vate ecuadoreno esprime un lato tutt’altro che docile, in un’esperienza di clubbing nuda e cruda, cassa in quattro e tribalismi. L’opera di Cruz, la sua eco italiana, l’esser parte di una corrente in crescita che recupera i suoni di alberi genealogici tropicali, sono dimostrazione di un meraviglioso paradosso storico: il futuro del passato è nelle mani del presente.

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