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Benedetto XVI e il Divino. Maria Zambrano e la metafisica. Siamo nel tempo delle solitudini. Le solitudini sono vittorie e sono lacerazioni. Nel tempo della debolezza vivono le leggerezza e la mediocrità.

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Cosa ci resta oltre le solitudini vere? Quelle presunte, quelle fittizie, quelle che conducono alla Illuminazione, quelle sanno di Verità? Possiamo immaginarci soli e viviamo la solitudine quando al cospetto del nostro sguardo avvistiamo un orizzonte di nulla. Quel nulla che diventa un “sottosuolo” permea la mancanza di ritorni che vorremmo che affollassero il nostro esistere.
Nel “sapere dell’anima” (Zambrano) si abitano “le parole del ritorno”. Il “Divino” che è Metafisica. Vorrei vivere di ritorni. Vorrei non vivere di partenze. Noi abbiamo solo noi stessi nel momento in cui la solitudine diventa metafisica, ontologica, religiosa nelle sue varie forme. Non restiamo soltanto con noi stessi quando si percepisce che non è mai soli. Il tremore che ci assorbe non è tanto per la nostra vita ma per le vite che ci stanno accanto.

Noi possiamo anche perderci e possiamo essere sconfitti, ma tutto ciò che è legato a noi non vorremmo che mai si perdesse. Non si tratta di una antropologia della solitudine nel timore della sconfitta. Piuttosto di un modo per approcciarsi al viaggio. L’infinito che si chiude, con il chiudere gli occhio, al finito.
C’è un mistero indelebile nelle nostre vite. Non siamo pietre. Neppure pontile dove le barche possano approdare e ripartire all’insaputa. La parola è un colloquiare dentro la solitudine stessa. La Parola. Ebbene sì! La Parola è un destino di Testimonianza. Penso spesso a Benedetto XVI. Alla sua teologia che si fa filosofia. Cito. Poi ognuno di noi nelle proprie stanze dell’anima si darà un segnale. Bisogna credere in Dio pur non essendo in Fede. Perché il Dio che ognuno di noi abita è quel faro che si accende ogni qualvolta la nostra zattera si trova nel vent’altura, nello smarrimento del bosco e della foresta.

Qui c’è sempre un “chiaro”, come insegna Maria Zambrano, che ci permette di avvistare l’aurora. Ma Benedetto conosce molto bene il pensiero della Zambrano e attraversa le voci di Cioran, di Evola, di Eliade e degli archetipi che si annidano nel pensiero forte fino a toccare il tragico nicciano nel segno ora raccontato da Pavese: “Pavese oltre l’ombra di Nietzsche”.
Benedetto XVI ci porta un esempio e ci conduce oltre il bosco della Zambrano: “Se un bambino si dovesse avventurare da solo nella notte buia attraverso un bosco, avrebbe paura anche se gli si dimostrasse centinaia di volte che non c’è alcun pericolo. Egli non ha paura di qualcosa di determinato, a cui si può dare un nome, ma nel buio sperimenta l’insicurezza, la condizione di orfano, il carattere sinistro dell’esistenza in sé. Solo una voce umana potrebbe consolarlo; solo la mano di una persona cara potrebbe cacciare via come un brutto sogno l’angoscia”.
L’angoscia è kierkegaardiana e Benedetto XVI non rinuncia a una tale e positiva riflessione: “C’è un’angoscia – quella vera, annidata nella profondità delle nostre solitudini – che non può essere superata mediante la ragione, ma solo con la presenza di una persona che ci ama. Quest’angoscia infatti non ha un oggetto a cui si possa dare un nome, ma è solo l’espressione terribile della nostra solitudine ultima. Una cosa è certa: c’è una notte nel cui buio abbandono non penetra alcuna parola di conforto, una porta che noi dobbiamo oltrepassare in solitudine assoluta: la porta della morte”.
Ed è naturale che attraversando Paolo e Agostino e San Tommaso non può che definirsi in una pausa di esistenza del filosofo di “Essere e Tempo”: “Tutta l’angoscia di questo mondo è in ultima analisi l’angoscia provocata da questa solitudine. Questo sta a significare però che anche nella notte estrema nella quale non penetra alcuna parola, nella quale noi tutti siamo come bambini cacciati via, piangenti, si dà una voce che ci chiama, una mano che ci prende e ci conduce. La solitudine insuperabile dell’uomo è stata superata dal momento che Egli si è trovato in essa” (Joseph Ratzinger – Benedetto XVI).

Bisogna fare in modo di vincere la solitudine che conduce alle agonie. Noi cerchiamo l’immortalità pur sapendo di doverla vivere come anima, come dimensione spirituale, come orizzonte di senso. Il buio è nella lacerazione della coscienza e dal buio si possono avvistare il nulla, ovvero il non senso perché il buio è Buio, o uno squarcio di tenerezza che è l’ombra che apre al chiaro. Simone Weil ci insegna costantemente ad attraversare l’ombra perché nelle ombre si possono nascondere le tenebre.
La paura della morte è il silenzio senza pazienza. Ma gli antichi sciamani mi hanno insegnato che il silenzio è sempre il corollario della musica. Cristo non vive l’angoscia nel deserto. Si prepara ad affrontare l’angoscia degli uomini e passeggia nella sua anima dialogando sempre con Dio.
Gli antichi sciamani senza Dio non si spiegherebbero. Ma Benedetto XVI ci ha condotto per mano lungo le vie in cui la Sua presenza è visibile con il “gesto” della spiritualità. Andiamo oltre, sempre più oltre, ma è necessario percorrere il buio del bosco per non dimenticare che la Luce ha sempre la sua Grazia. Un cammino in cui la vita ha il linguaggio della Rivelazione. Nella rivelazione si cerca il viaggio e la comprensione del Golgota.

Benedetto XVI e Maria Zambrano costituiscono oggi le due voci forti per un pensiero forte contro la debolezza del relativismo. Non Platone ma Socrate. Boezio e Campanella. Capire la solitudine è penetrare le inquietudini che ci arrovellano

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