Padova 17-01-2002 Sabino Acquaviva. Caserma della Polizia di Stato : incontro sull' ordine pubblico.
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Il mio amico sociologo, scrittore, forte pensatore Sabino Acquaviva è scomparso. Era nato nel 1927. E’ stato un sociologo attento. A metà degli anni Settanta ha “scavato” tra le parole delle Brigate Rosse.

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Ebbi modo di conoscerlo a Roma proprio alla fine di quegli anni. Il sociologo e lo scrittore. Abbiamo avuto una frequentazione il cui nostro dialogare era però la letteratura- anche dopo gli arresti eccellenti del 7 aprile con in testa Toni Negri. Lavorava all’università di Padova come Preside di facoltà. Ma su un suo libro mi sono più volte soffermato.
Un piccolo libro che è parte integrante del mio vocabolario letterario e resta tale insieme a pochi altri. Ebbi modo di parlarne in più occasione (da Roma a Taranto) e di questo, nel ricordarlo, voglio scrivere. È stato un amico e un maestro. Della stessa generazione di Francesco Grisi. Era nato lo stesso anno. Ebbi modo anche di farlo venire a Taranto per parlare di questo suo libro e di confrontarsi con alunni e docenti. Resta nel mio percorso. Amico e maestro.
Così. Allora? “Ma chi ha deciso che dovevi diventare una donna che scompare oltre l’orizzonte della mia mente? Perché due persone non possono prendersi per mano e raccontarsi per sempre la fatica di vivere? Il nostro incontro è nel passato di tutti perché la vita è passato. Ma allora, in questo nulla, che sarà della mia?”. Uno straordinario inciso che intreccia vita e letteratura. Dove sta la vita e dove la letteratura? Si inscrive in quel percorso letterario in cui raccontare un amore è rivive un amore o raccontare non è solo raccontarsi è soprattutto ritrovarsi. Il diario dello scrittore che vive la pagina attraversandola con il sentiero dell’anima, nel contesto letterario del Novecento, costruisce sempre un diario imperfetto. L’ho sottolineato anche in un mio recente saggio dove scrivo sull’indefinibile nostalgia.
Cosa è la perfezione in un percorso letterario dove la vita prende il sopravvento? Il virgolettato citato sopra è tratta da una pagina che è sogno scritta da Sabino Acquaviva. Un perdersi e un ritrovarsi. Dove comincia quest’amore e dove il diario dello scrittore? Perché si va alla ricerca di una regina del sole? Perché in fondo la regina del sole raccoglie sogni. “Spesso cerco di non pensare e ricordare, ma la notte sogno”. E poi: “Talvolta tento di rivivere l’impossibile evocandone le sfumature, spreco il futuro desiderando l’infinito”.

Quando un amore vive c’è sempre una regina del sole nel vento delle attese e delle emozioni. Quando un amore finisce la regina del sole cammina nella notte e resta senza luce, aggrappata ai crepuscoli che tramontano e al tramonto che entra nella notte. Una nostalgia ricama i giorni e ciò che resta sono i ricorsi. I tanti ricordi. Un piccolo libro ma con una grande anima che sembra inseguire sogni sulle onde di una memoria che racconta la storia di un amore che nasce e finisce è “Prima dell’alba” di Sabino Acquaviva (Sellerio). Un sociologo che non analizza o indaga nei fenomeni della società ma non compie neppure indagini esistenziali.
In questo racconto racconta la bellezza di un amore ma anche la morte di un amore nel paesaggio di un dolore che sembra un volo di aironi. Il tutto in una Venezia quasi manniana o forse, meglio, aznavuriana: “Come è triste Venezia…”. In uno stile decadente ma romantico. Non ci sono rimpianti e neppure rimorsi. Ma la memoria si fa vita e con la memoria un’indefinibile nostalgia prende il sopravvento. La storia di un amore dunque. Raccontata con le distanze. Quel non amarti più che sembra affiorare recita come un continuare ad amarti ancora di più di più ora che “lei” è diventata un sogno e danza sulle pagine come le dita sulla tastiera di un pianoforte.
E il tutto lo si legge nelle parole come lo si leggesse negli occhi. Sembra ascoltare un “Te lo leggo negli occhi…” (“Finirà me l’hai detto tu/ma non sei sincera,/te lo leggo negli occhi/hai bisogno di me…/Tra di noi forse nascerà/un amore vero,/te lo leggo negli occhi/tu lo leggi nei miei”, da una canzone di Bardotti – Endrigo ora cantata da Franco Battiato). Quest’amore che non è disperato è un madrigale che accompagna il desiderio del ricordare.
E’ un racconto ma io (l’ho letto più di una volta) me lo sono sentito recitato dentro come una lunga poesia che intaglia immagini e tra i fili di luna ritornano desideri assopiti, infanzie custodite tra le pieghe dei labirinti dai quali nonostante tutto non si vuole andare via, agganci con quegli affetti che sono nel nostro sangue e sono la nostra carne. E l’amore che qui si vive, questa storia d’amore nonostante tutto ha avuto il pregio di rimandarci (l’autore che si fa lettore e il lettore che si fa anche autore) ad un tempo che non è solo quelle dell’immediato passato. E la scrittura è una magia.

Un’antica magia fatta di linguaggi che sono simboli. Una triste Venezia. “Mio amore mio dolce amore meraviglioso amore/dall’alba chiara finché il giorno muore/ti amo ancora sai ti amo” (un’altra malinconia di Battiato che proviene da J. Brel: “La Chanson des vieux amants”). Si racconta la fine di un amore ma è un amore che continua con la sua presenza tra le linee del corpo, nell’anima, nel tempo. I ricordi ci salvano o salvano ciò che non è più possibile incontrare. Ma sono lì. I ricordi immensi. Immersi nella vita. Amore immenso.
Sabino Acquaviva: “Avevo paura perché già sapevo che il nostro era un amore di quelli che sembrano sostituirsi a Dio”. La grande tensione degli amanti. Innamorarsi innamorati. Perché un amore siffatto muore e muoiono nell’amore gli amanti innamorati di questo amore? C’è una straordinaria e straziante poesia di Alda Merini nella quale si ascolta: “A volte Dio/uccide gli amanti/perché non vuole/essere superato/in amore”. Ma qui sembra rispondere Acquaviva: “Quando l’amore scompare, all’improvviso come ci è accaduto, la sua fine crea angoscia come il silenzio di Dio”.
I ricordi che creano una pausa con il presente e con il tempo. Tentacoli e li trovi dappertutto. Ci avvolgono. Dentro e fuori di noi. Sono una matassa. Un entrare e un uscire. Un emozionarsi sempre. Si racconta nel sentire e nelle parole che scivolano. Vanno via nel vento. Le porta via il vento (B. Dylan). Ci passano davanti ma non si sa dove si vanno a posare. Come le foglie. Gli amori sono come le foglie nei giorni delle stagioni. E c’è il tempo che custodisce le nostalgie. Ecco: “E’ vero, la nostra storia s’allontana, eppure nel tempo del mio spirito è eterna. E’ un amore finito che non ha fine”.
Tutte le nostalgie possibili. Quelle che intrappolano la nostra anima. Sulle vie del tempo gli impossibili amori ci trafiggono. Incidono sulla sabbia del nostro camminare e diventano solchi, passi e poi impronte o segni indelebili. Non si cancellano. Sono nella vita. Sabino Acquaviva: “La vita mi sembra un intruglio di pensieri futili ed eventi senza colore. Ogni cosa è grigia: la strada, i volti, le cose da fare o scrivere, le persone da incontrare. Tutto svanisce come segni sulla sabbia lambita dall’onda. Anno dopo anno fatico, scrivo affannosamente su quella spiaggia ideale nella speranza che qualcosa di me duri oltre il mio tempo, ma uno sterminato numero di onde consuma la vita./Carta straccia, mi dico camminando, le ore più belle cancellate dal tempo, l’amore che non è più, di chi mi ha voluto e di chi mi ha respinto. Quello infinito, disperato per te e quello minuto, dolce o amaro, per altre. Quello che mi ha dato gioia o sofferenza e gli altri, meschini, sciocca espressione di una vita squallida. L’assenza di uno stimolo o motivo di vita toglie sale al vivere ed entusiasmo al fare. E la mia vicenda terrena non cambia forma o natura./Ore d’inutile vagabondare ed è già il tramonto”.
E così si scrive di un amore che è andato via ma che rimane in ogni ruga del “nostro” esistere, dell’esistere, del tempo che si fa futuro, del tempo che circonda il quotidiano, del tempo che si sgretola, del tempo nell’eterno, del tempo che non smette di raccontare. Un amore che muore si raccoglie nel tramonto. Ovvero tutto avviene prima dell’alba. Cosa succede dopo? Cosa è già successo. Che cosa resta? Il dopo? Prima dell’alba non c’è nostalgia. La nostalgia è sempre dopo. Ma non c’è disamore (come in un bel romanzo di Libero Bigiaretti). E non si vive quest’amore come una autanasia (come in un famoso romanzo di Giorgio Saviane).

Qui, in questo recitativo poetico di Sabino Acquaviva, c’è la malinconia di quell’anonimo veneziano di Giuseppe Berto che trafigge un sentire che equivale a un partire. La morte fisica del romanzo di Berto qui si trasforma in un non voler morire. Ma la morte c’è: “Anche la fine di un amore ha la solennità della morte” racconta Acquaviva. E poi: “… i riti della fine sono il simbolo del continuo consumarsi di ogni cosa, annunciano la morte, sempre presente, negata o ignorata, mai veramente accettata”. In questo Amore che vieni amore che vai (De André).
Maria Cumani per Quasimodo. Sibilla Aleramo per Cardarelli. E altri ancora che recitano il loro paese del vento nel nostalgico rincorrere di quell’amore che sa che l’estasi è una follia senza la quale nulla resta. E qui tutto resta nei vetri appannati dei giorni che scorrono. Non c’è disperazione ma il tempo che riporta quest’amore è un tempo straziante perché è consapevolezza di un qualcosa che è oltre. E’ un costante risentire i giorni.

“Prima dell’alba” è un tassello di grande letteratura in un mosaico in cui la letteratura stessa nel viatico della vita è tradizione. Una sottolineatura di Acquaviva, in questo contesto in cui il raccordare l’amore e il tempo sono esistenza, che non ha bisogno di ulteriori parole: “La tradizione dà il senso del tempo, opprime con malinconia, ma la sua assenza impoverisce, priva la vita di molti suoi significati”. La tradizione. Il sociologo che diventa uno scrittore in un racconto d’amore. Rimane nella mia memoria cercando cosa c’è prima dell’alba.

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