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Una frase lapidaria per il nostro tempo. “…io ho lasciat(o) la falsa fede di Maometto e sono ritornato alla vera fede di Gesù Cristo” scrive Giorgio Castriota Scanderbeg (1405 – 1468) in una nota a Murad, Principe dei Turchi, (come riportato da alcuni testi).

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Un inciso importante che apre prospettive nuova ad una rilettura della figura e dell’opera di Scanderbeg. Una lettura che lo colloca in una interpretazione certamente tradizionalista e nazionalista oltre che in una visione cristiana e occidentale.

Da anni studio il “percorso” che ha condotto Scanderbeg e mi vado sempre più convincendo che c’è bisogno di una totale rilettura grazie ad un revisionismo tout court delle avventure, delle vicende e del destino di Scanderbeg sia esso tra storia e letteratura sia tra motivazioni che ci portano a viverlo come modello leggendario.

Ma non basta la storia da sola a rileggere un personaggio e un contesto di civiltà. Occorre necessariamente una interpretazione reale sui processi storici.

Le mie riflessioni, i miei studi, le mie analisi partono, appunto, da una rilettura. Uno Scanderbeg fortemente ancorato, dopo il suo passato islamico, al cristianesimo, un cristianesimo, attenzione, occidentale. È su questo che la mia riflessione, nel lavoro che sto portando avanti e che dovrebbe vedere la luce il prossimo anno, toccherà aspetti ed elementi problematici tra storia e cultura in un incontro e, certamente, in una diversità tra Occidente ed Oriente. La figura di Scanderbeg vive all’interno di un processo storico che ha visto al centro la trasformazione di un’area geografica qual è quella del Mediterraneo.

Non può essere spiegata l’opera di difesa dei valori compiuta dal condottiero albanese senza pensare al ruolo che ha avuto la geografia mediterranea in una visione in cui l’Occidente e l’Oriente stabilivano un rapporto sia sulla base di scontri e conflitti ma anche sulla base di una progettazione che doveva portare alla comprensione e alla consapevolezza delle identità.

Scanderbeg è stato certamente un “nazionalista” ed ha puntato le sue battaglie nella difesa sì di un territorio e di un popolo ma soprattutto pensando a quei valori che sono stati punto di riferimento per una occidentalizzazione cristiana. Ciò è leggibile non soltanto da un versante storico ma anche sul piano di una interpretazione letteraria.

La letteratura su Scanderbeg presenta delle chiavi di interpretazioni che restano fondamentali proprio per capire la funzione di quell’idea nazionale che ha accompagnato molta letteratura e molti scrittori italiani. Si pensi a D’Annunzio. “Ancor vivente, l’Eroe nazionale albanese Giorgio Castriota, noto con il nome di Skanderbeg, è entrato nel mondo della leggenda… In tutta l’Albania la memoria di Skanderbeg, dove più dove meno, è venerata ed è anche ragione di vanto…”. Così sottolinea Ernesto Koliqi.

La letteratura albanese rientra in quelle culture letterarie che respirano identità adriatica e tradizione mediterranea. E’ sostanzialmente una letteratura ricca di stilemi e di modelli storici che rimandano ad una visione della letteratura letta attraverso i canoni di una identità antropologica.
Il popolo albanese ha una grande memoria da difendere. Attraverso la memoria si recuperano le tradizioni di un popolo e di un destino. Il destino di un Paese è il destino di una civiltà. I suoni, i colori, le voci, i segni sono trascorsi che non ritornano ma sono anche ricordo lungo il tempo che annuncia il passato nella sfera del futuro.

Uno dei libri di Kadaré (certamente quello meno retorico) che risponde proprio al discorso prima accennato è, senza alcun dubbio, I tamburi della pioggia pubblicato a Tirana nel 1970 (con il titolo Keshtiella), in Italia 1981 – 1982 da Longanesi e con una nuova edizione nel 1993 da Teadue. Un romanzo che racconta non soltanto l’epopea di Scanderbeg ma, in modo particolare, decifra la nostalgia di un popolo.

Storia e leggenda sono, appunto, un intreccio esistenziale che pone al centro la consapevolezza di una eredità ma anche il coraggio di un popolo. Si era nel XV secolo. Diaspora e fuga per il popolo albanese era un miscuglio fatto di sentimenti ma soprattutto di rabbia, di accettazione e di sconfitta.
Con la morte di Scanderbeg non solo termina una fase di attesa, di orgoglio e di gloria ma comincia una stagione, per quel popolo, senza speranza. Scanderbeg era la speranza. Su questa speranza la letteratura è diventata leggenda perché, tra l’altro, ricostruendo le gesta eroiche si riproponeva costantemente la presenza di questo personaggio. Lo si continua a vivere nella metafora dell’attesa. La realtà è alla base della lettura kaderiana ma si serve della metafora che chiave di interpretazione di una tragedia collettiva.

“Si trovano palesi testimonianze della simpatia di Gabriele D’Annunzio verso l’Albania e gli albanesi visitando l’interno del Vittoriale. Nella Stanza delle Reliquie, proprio sull’altare dei cimeli di guerra e dei simboli religiosi, si può ammirare un rarissimo esemplare rilegato in pelle dell’opera su Scanderbeg dell’abate scutarino Barletio, in versione tedesca del 1561. E’ se la memoria non mi falla, uno dei quattro o cinque libri ammessi dal Poeta in quella parte mistica della sua dimora”. E’ ciò che scrive Ernesto Koliqi in Saggi di Letteratura Albanese (Olschki, 1972), nel capitolo dedicato a “Gabriele D’Annunzio e gli Albanesi”.

“Il De Rada in Scanderbeg, lo si intuisce leggendo il suo poema, non ammirava tanto l’uomo di coraggio, virtù comune agli Albanesi, né l’abile stratega, quanto il creatore di un’idea di fratellanza, colui che aveva acceso un sacro fuoco nel grande focolare della stirpe, che aveva insegnato alla gente legata dallo stesso sangue e dalla stessa lingua a considerarsi figli della stessa madre” (Ernesto Koliqi, Saggi di letteratura albanese, Olschki Editore, 1971, pag. 109). Una questione che tocca indubbiamente le corde del sentimento di appartenenza.

Ismail Kadarè in I tamburi della pioggia racconta attraverso la lotta tra gli albanesi e i Turchi l’avventura di Scanderbeg. Eroe dell’indipendenza e per l’indipendenza, mostra la tristezza e l’anima albanese. Fa da scenario il XV secolo. Lunghe battaglie. Disperazioni urlate. E la consapevolezza che nella storia si dipinge il volto del dolore di quella gente. Un popolo in attesa che ha rintracciato negli archetipi un modello di vita. Vive dentro la nostra coscienza e la nostra identità Mediterranea nell’abbraccio con l’Adriatico.

Lingua e metafora nella storia si intrecciano in un percorso che ha una chiave di lettura profondamente culturale. Ma ci sono anche elementi religiosi. Si legge: << che fai, Ibraim? gli dissero, “ vuoi diventare cristiano e continui a pregare come un musulmano ?” >>. Una testimonianza chiaramente culturale ma anche di fede. Così nell’incarnazione di Castriota.

Scanderbeg oggi rappresenta l’eroe – metafora. Un personaggio che è dentro la storia e si riappropria della storia riappropriandosi dell’identità di una terra e della singolarità di una appartenenza che ha radici antiche. Ritornare al XV secolo grazie alla rilettura di alcuni eventi è riproporre un problema che ha motivazioni etiche, politiche e culturali. Scanderbeg oggi è un personaggio che si pone all’attenzione sul piano storico ma in modo particolare la sua rilevanza ha caratteristiche politiche.

Se Scanderbeg è l’eroe che si propone come eroe – mito è certamente un personaggio che offre una risposta si di natura culturale ma anche profondamente politica nel senso che si contrappone a ciò che è stata l’Albania nello scorcio degli ultimi decenni. Un Paese dilaniato e occupato, invaso e vilipeso. Un Paese che attende ma conosce molto bene il sentiero della fuga. La fuga è il dolore ma è soprattutto la consapevolezza di una barriera non solo ideologica quanto esistenziale.

Scanderbeg. L’eroe albanese che lottò per l’indipendenza e costrinse i Turchi alla difensiva. Sconfisse gli imperi e strinse forti amicizie con Roma e Napoli. Il popolo albanese ancora lo rimpiange. Con lui si rimpiange l’indipendenza perduta. Sono state scritte tante pagine per ricordare il suo valore.

L’antico valore dell’eroe che trova nel senso dell’appartenenza il sentimento della patria. Appartenenza e patria: un unico riferimento per il quale il popolo albanese ha lottato per secoli. Ma le epoche si ripetono e si ripete la tragedia nella storia che racconta e maschera. Sono state date tante versioni sulla figura di questo condottiero. E’ stato preso come emblema a volte gli è stata calata una camicia ideologica. Schematismi e strutture hanno cercato di accreditarlo come un eroe della liberazione.

Scanderbeg fu, invece, un assiduo protettore delle tradizioni. Fu un conservatore. E da questo punto di vista fu un rivoluzionario come lo può essere un valoroso strenuo difensore della patria, dell’appartenenza e dell’identità. Era nato a Mati il 1405. Suo padre Giovanni Castriota fu un protagonista di sanguinosi combattimenti contro i Turchi.

Scanderbeg si chiamava Giorgio Castriota. Fu chiamato Scanderbeg per le sue capacità e per quegli ideali per i quali lottò durante tutta la sua vita. Ma nel suo nome c’era una allusione che richiamava il Principe Alessandro, il condottiero macedone. Ovvero Skander-bej.

Si distinse in numerose battaglie. La battaglia di Nis. La battaglia di Morea. E poi la sconfitta di Varna. E ancora le vittorie di Mocrene e di Otoleta. E poi i suoi rapporti con Venezia. I diversi tradimenti consumati all’interno del suo popolo e anche della sua famiglia. Scanderbeg dovette impegnarsi su diversi fronti. Uno esterno: la guerra con i Turchi.

Uno interno: sanare i conflitti tra i capi del suo esercito. Uno trasversale: il conflitto con la Serenissima. Ma ciò che lo risollevò fu certamente l’alleanza con Alfonso d’Aragona, il Re di Napoli. Portò aiuto in Italia al Re Ferrante. Ci furono vittorie ma le vittorie Scanderbeg le pagò caramente, le pagò sempre con il sangue. Il suo popolo alla sua morte era distrutto, era disorientato, era ormai sul vero senso del termine un popolo in fuga. Le conseguenze non si fecero attendere.

Scanderbeg morì il 17 gennaio del 1468. A suo figlio Giovanni gli raccomandò di lasciare l’Albania e di recarsi in Puglia. In Puglia possedevano, i Castriota, dei castelli nei quali si poteva trovare un sereno rifugio. Un eroe – simbolo. Maometto lo definì un leone e disse che sulla terra non sarebbe nato mai più un simile leone.

Ciò che maggiormente addolorò Scanderbeg fu il tradimento di Giovanni Stresio il quale era figlio di sua sorella Angela. Lo fece catturare e lo fece torturare e poi lo consegnò come prigioniero ad Alfonso d’Aragona. Un fatto gravissimo fu questo tradimento ma non condizionò il processo unitario – politico al quale Scanderbeg puntava con tutte le sue energie.
Un fatto che invece rivoluzionò la sua vita fu la conversione al cristianesimo. In una lettera a Murad, Principe dei turchi, annotava: “…se io ho lasciata la falsa fede di Maometto e sono ritornato alla vera fede di Gesù Cristo, io sono certo di aver scelto la miglior parte. Perché osservando i suoi santi comandamenti sono certo che l’anima mia sarà salva e non (come tu dici) perduta. Ti prego, per la salute dell’anima tua, di ascoltare da me ancora un ottimo consiglio. Degnati di leggere il Corano: cioè la raccolta dei precetti divini dove potrai facilmente vedere chi di noi sia in errore. E così ho speranza, se tu vorrai equamente considerare, che, vinto dalla ragione, ti sottometterai alla sacrosanta fede cristiana, soltanto nella quale tutti gli uomini che cercano di salvarsi si salvano e fuori della quale ogni altra si rovina”.

Era il 14 luglio del 1444. E allora Scanderbeg è un personaggio complesso. Certamente la sua lotta fu, come si è già detto, una lotta per l’indipendenza di un popolo, ma non fu solo questo. Fu soprattutto una lotta per la difesa di quelle radici antiche che il popolo albanese tuttora rivendica, ma non fu neppure solo questo. Fu in modo particolare una lotta di un mondo contro un altro e quindi fu lo scontro tra due culture, due civiltà, due religioni. Non fu espressamente un conflitto religioso. Ma la religiosità o meglio la difesa di un certo tipo di religiosità rientra direttamente nello scontro disputato tra due Paesi.

D’altronde dove c’è un conflitto per la difesa dell’appartenenza questo diventa un conflitto per la tutela dei valori di fondo e tra questi rientra la difesa di una identità spirituale. Scanderbeg dunque fu uno di questi crociati che lottò per salvaguardare un modello di civiltà che si inserisce in un quadro in cui l’eticità e la tradizione sono un baluardo, una roccaforte, un principio profondamente religioso.
Se Scanderbeg è il simbolo di questo processo culturale non può che essere tuttora un riferimento, un riferimento con il quale la civiltà moderna dovrà ancora fare i conti. Ma se tale è non può che essere inserito in quella cultura che vede nel nazionalismo, nell’unità, nella tradizione, nel valore di patria, nella conservazione dell’eroe l’asse portante per un progetto che pone al centro l’uomo con il suo bisogno di nostalgia e con il suo bisogno di mito.

Scanderbeg combatteva in nome di Cristo. Combatteva per difendere la tradizione, La civiltà moderna non può accreditarlo come eroe o come simbolo. Soltanto nei valori e nei significati di una civiltà che sconfigge la crisi del mondo moderno un personaggio come Scanderbeg può trovare posto. E il personaggio di ieri resta nella storia e resteranno i suoi segni e il suo esempio. Ma siamo noi che dobbiamo cercare di decodificare i suoi messaggi e la sua testimonianza. Può esserci di aiuto in una società quantitativa. Ma lasciamo da parte gli schematismi, le troppe ignoranze e le troppe interpretazioni che vanno al di là delle giustificazioni storiche. Scanderbeg resta un nazionalista che vedeva nella Patria il simbolo dell’appartenenza e nel cristianesimo la salvezza del popolo.

Kadarè nei suoi romanzi non ci mostra ancora un popolo in fuga ma ci fa capire come tutta una cultura è attraversata dal pericolo della fuga. “… Quelli che vivranno più tardi su questo suolo capiranno che non ci è stato facile ergerci, per questa lotta gigantesca, contro il più temibile mostro della nostra epoca. A essi non lasceremmo in eredità né statue né colonne imponenti. Non abbiamo avuto il tempo di costruirne e, con molta probabilità, non avremo il tempo di farlo neppure nei momenti di requie fra l’una e l’altra delle bufere che ancora ci aspettano. In loro luogo, lasciamo queste pesanti pietre delle nostre mura, che la pioggia delle battaglie va bagnando in questo grigio mattino. Sembra che la prima stagione di guerra volga al termine. Altre ci attendono. Le nuvole si accalcano nel nostro cielo, nel nostro grande cielo”. (In I tamburi della pioggia).

E’ su questo orizzonte che il tempo delle battaglie ricalca il destino dell’Albania. Ieri come oggi. Un Paese che ha cercato la libertà nel forte sentimento dell’appartenenza. E la libertà l’ha cercata anche nella fuga. Nel non voler morire da estranei in una terra che spesso abbandona il sentimento delle origini. Forse questo è il richiamo ad una dignità dimenticata. Quale eredità onora gli albanesi?
Il nome di Scanderbeg è un tracciato che bisognerebbe, in tempi di sradicamenti, ripercorrere. Storia di lingua, di paesaggi, di popoli. Un popolo che si cerca nella sua realtà e nella sua tradizione. Pur restando sempre un popolo in fuga. L’Italia meridionale è stata attraversata dalla storia degli albanesi in fuga.

Le diverse comunità che ancora vivono nelle Regioni del Sud sono una testimonianza emblematica di una civiltà che ha lasciato ormai segni indelebili. Molte altre comunità sono nate come comunità albanesi ma poi si sono italianizzate. Un rapporto tra culto e storia, tra ereditarismo e cultura della tradizione oggi diventa fondamentale.
Il mito da conservare non basta. Le civiltà difendono le loro tradizioni facendo conoscere la storia e trasmettendola. E’ questioni di radici e di senso dell’appartenenza. I simboli parlano. Ma con i simboli che rappresentano queste comunità bisogna anche parlare. La parola è linguaggio e il linguaggio si porta dentro storia e tradizione. Un mito che ha attraversato secoli e culture.

Così Ernesto Koliqi: “L’Europa stupiva alle gesta temerarie del Condottiero albanese. Il suo nome, cinto da un alone mitico, volò di contrada in contrada…”. Cantato, raccontato, recitato. Dall’Albania ai paesi italo – albanesi. Un simbolo di libertà nel rispetto di una tradizione che è difesa dell’identità di un popolo.

Basta citare, per tutti coloro che lo hanno “attraversato”, il Canto tradotto e curato da Girolamo De Rada. Struggenti i versi che recitano “La morte di Scanderbeg”: “S’alzò lento e triste il giorno/tutto nebbie e nubi grosse:/pareva che il ciel piovono/pien d’indizi neri fosse.//E con l’alba nuova il cielo/sorse un ululo che invase/come raffica di gelo/terra e mare e cuori e case”.
Nell’ultima quartina è una “pagina” di malinconica consolazione: “Aprì il cielo l’alte soglie/all’Eroe senza ventura/che soltanto lassù coglie/ricompensa imperitura”. E’ dunque vero che la letteratura ha interpretato la vita e la morte di Scanderbeg attraverso modelli certamente storici ma anche profondamente lirici. Resta un dato di fatto importante.

Nella letteratura Scanderbeg resta la metafora del condottiero che ha combattuto per scacciare i turchi dall’Albania e per dare la libertà al suo popolo. Ma queste imprese, che esulano dalla metafora perché sono dati reali che rimangono nella storia, hanno un principio fondante che è quello di dare un senso identitario ad una Nazione che veniva costantemente lacerata nella sua storia e nei suoi valori.

Storia e valori che conducono direttamente ad un impegno che è stato quello di proporre una cultura cristiana come baluardo nella avanzata dei turchi. Mi sembra questo uno dei temi toccanti nel destino di un popolo e di una civiltà. Anche oggi è impensabile capire il ruolo di Scanderbeg senza entrare nel di dentro di questa visione. La letteratura lo ha “liricizzato” certamente ma nei processi storici non può che essere individuato come un riferimento nella certezza dei valori cristiani.

In una tale tessitura è chiaro che il concetto di Mediterraneo, qui anche come metafora della unione tra sponde, è una chiave di lettura in una prospettiva moderna, nella quale il destino stesso di un popolo trova quasi una forma empatica con il destino della civiltà mediterranea. Scanderbeg resta, da questo punto di vista, un vero e proprio protagonista. L’Occidente come destino. Ma questo Occidente è un Occidente cristianizzato.
Le forme antropologiche possono qui avere un loro senso se dentro la storia che si va a sezionare si ha la capacità, il coraggio, la forza di leggerla con quei parametri che ci ha insegnato un grande della storiografia contemporanea, ovvero Renzo De Felice. Anche in Scanderbeg e nel suo passaggio tra Islamismo e Cristianesimo non ci sono parentesi. La storia va letta e interpretata nella sua complessità.

Proprio da questo punto di vista Scanderbeg resta un personaggio che continua a vivere nella nostra contemporaneità e in un tempo in cui Europa, Occidente, Mediterraneo e sponde d’Oriente sono un intreccio di processi che vanno capiti, compresi, approfonditi ma sempre fuori da logiche ideologiche (o giustificazionistiche) e da fondamentalismi che non appartengono ormai alla storia recente della cultura cristiana.

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