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Ho incontrato Leonardo Sciascia ai tempi in cui il dibattito sul caso Moro era infuocato. Io stavo con Sciascia. La sua scrittura prima di quel “fatto” mi lasciava freddo. Era il 1978. l’Affare Moro. Quel libro ha caratterizzato anche una mia visione di osservare la politica. Ma ciò è un’altra faccenda.

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Un incontro di parole, di silenzi e di sguardi. Era un contemporaneo nella contemporaneità ma riusciva a vivere il “suo” tempo nel tempo della storia e la storia, non quella che offriva nei suoi scritti o mostrava attraverso la sua dialettica e la sua capacità di afferrare gli eventi, era una frantumazione di particolari, di elementi culturali, di modelli esistenziali. Era nato Racalmuto l’8 gennaio 1921 e morto a Palermo il 20 novembre 1989. 25 anni fa. Ho cominciato a studiarlo, rileggendo alcuni suoi libri, proprio dopo la porte di Aldo Moro: 9 maggio 1978.

Moro era diventato un personaggio tra i personaggi di quella letteratura sciasciana. I personaggi che portava sulla scena avevano sempre un’anima e i paesaggi che mostrava non erano sempre dei luoghi geografici ma dei riferimenti esistenziali che avevano una penetrazione etica, morale, letteraria.

Nei suoi personaggi quell’anima non era sempre un’anima cosiddetta civile ma il più delle volte emergeva una coscienza enigmatica. Il mistero era per Sciascia un’avventura ma anche un destino. Uno scrittore calato nella profondità siciliana. Una sicilianità che significava Mediterraneo. Un incrocio tra civiltà abbandonate sulle onde del Mare arabo, sulle colline, lungo i corridoi dei paesi del Sud, nelle piazze che si traducevano in agorà, nel sospetto dei sogni, nella falsità degli uomini persi alla ricerca delle ricchezze improvvise o improvvisate. Ebbene Sciascia aveva la consapevolezza che i personaggi e gli uomini si sentivano aggrediti dal destino e dal peso delle avventure. E il tutto in una rocambolesca messa in scena nel teatro fittizio dei giorni.

Un pirandelliano (o un pirandellismo) che incontra un’essenza gattopardiana (gattopardesca). Due capisaldi, al di là dei suoi testi sulla mafia e sulla condizione della sua Sicilia in un tempo di mafie e di sconfitte morali, sono certamente Pirandello e Tomasi di Lampedusa. Il mistero e la comprensione che ci deriva dalla storia. Un’unica chiave di lettura che ha un suo senso e che diventa un processo esistenziale il cui centro è segnato dall’incontro tra la natura e l’uomo.

Da qui la malinconia che esplode dalle sue parole. Parole che sono sguardi, non attimi fuggenti, e marcano identità e radicamenti. La malinconia di Sciascia è già in Le parrocchie di Regalpetra. E poi in Il giorno della civetta pur essendo un romanzo in cui si parla di mafia. E ancora malinconia in quella ricerca di una verità che passa comunque attraverso il “sapore” della falsità. La verità è una falsità purificata. Mi riferisco a Il consiglio d’Egitto, a Morte dell’inquisitore e ancora A ciascuno il suo, a Il contesto e mi fermerei, in questa fase, a L’affaire Moro. Quest’ultimo lo considero un testo chiave. Ritorno ai giorni in cui ho cominciato a rileggere Sciascia e ad amarlo.

Perché ha dentro di sé almeno tre dimensioni. Quella storica. Quella romanzesca. Quella politica. Ovvero. L’analisi di un contesto che raccoglie l’aspetto sociale, ideologico, umano. La centralizzazione del personaggio Moro è una proiezione letteraria che si focalizza non solo in quella tragedia ma in uno scavo che permette di addentrarsi nell’avvenimento in sé ma anche nel destino di Moro stesso. Moro non è soltanto lo statista è, in Sciascia, un personaggio della tragedia. Qui l’aspetto letterario me sembra fondamentale ed eccezionale. Il dato politico non prescinde da un processo che è etico, morale ed esistenziale e ha radicamenti che vengono da molto lontano.

Storia, letteratura e politica. Ovvero ancora: memoria depositata, metafora, cronaca. Tre forme del pensare, dell’essere e dell’agire che trovano nei suoi scritti una chiave di lettura che si condensa in quello stato di malinconia che si troverà in modo emblematico in Il cavaliere e la morte. Ritorna il pirandellismo e il gattopardismo. In uno scritto su Tomasi di Lampedusa Sciascia ha scritto: “Immutabile è il destino dell’uomo siciliano; immutabile dovunque, nell’atroce successione dei fatti che le idee muovono, il destino umano: un destino da contemplare, fuggendo dallo spavento della storia, nello spavento cosmico di Pascal”. E poi ha affermato che don Fabrizio in Il Gattopardo “si accorda alla precarietà della vita e alla infinità della morte”.

Vita e morte sono i codici di una Sicilia che incarna non solo il suo mondo ma, secondo Sciascia, il mondo in sé. E questo mondo in sé è una costante rivelazione che si serve di due categorie: del senso dell’ambiguo e della certezza che la verità passa attraverso, come già si diceva, la finzione. Per Sciascia la scrittura è un messaggio in codice che trasporta sulla pagina frammenti di realtà. Ma la realtà è un filtro che processa il quotidiano e va dentro la storia.

La menzogna che occupa la storia può essere sconfitta dall’intelligenza della critica. E’ su questo che Leonardo Sciascia ha percorso il suo viaggio culturale e letterario in particolare. Un viaggio che si legge soprattutto con il coraggio del rischio. Sciascia aveva il coraggio del rischio anche quando scrisse quel “brutto” articolo sui professionisti dell’antimafia. Forse non capito o forse troppo forzato ma che ha lasciato molti dubbi.

Ora Sciascia è diventato un personaggio tra i personaggi che egli stesso ha costruito o “falsificato”. Un personaggio che non aveva condiviso l’incontro tra il rosso e il bianco del 1978. Che non aveva mai accettato l’immagine di una Sicilia “illuminata” dagli scoppi della lupara. Che non avrebbe chiaramente condiviso tutte le polemiche politiche sui fatti di mafia di questo decennio passato. E forse avrebbe completamente riscritto quell’articolo sui professionisti dell’antimafia. Aveva il coraggio di correggersi, di accettare, di ammettere valutazioni errate.

Un uomo di cultura che poneva al centro l’uomo con le sue falsità e con le certezze del dubbio. Ecco perché nella sua scrittura il segno della metafora rappresentava un codice sia linguistico che problematico. Una letteratura della problematicità perché per Sciascia il tempo della cultura poteva coincidere con quella della politica attraverso gli uomini e attraverso un’etica dell’essere.

Come il Mattia Pascal Sciascia “usava” una sua biblioteca. La biblioteca delle parole, dei linguaggi, del tempo, della memoria. Dal 1978 in poi: dal libro su Moro, in Sciascia ha prevalso il fantastico. Ed è questo lo scrittore che ancora dà lezioni, che è ritornato a parlarci di quella “corda pazza” con un sentire che va oltre la misura del quotidiano. Come una proiezione profetica.

La sua passione, il suo far prevalere i valori della cultura o i valori della verità della cultura su quelli della demagogia politica, il dare degli orizzonti e il mettere costantemente in discussioni le varie posizioni, da qualsiasi parte esse potessero provenire, facevano di Sciascia non solo quell’intellettuale “contro”, che ho sempre stimato, ma ponevano all’attenzione il ruolo dell’intelligenza critica sul conformismo dilagante e Sciascia, appunto, era un interprete di questa intelligenza critica che veniva messa al servizio di una discussione problematicizzando i fatti e la storia stessa nella quale la contemporaneità era calata.

La letteratura che si spoglia della cronaca diventa anche profezia. E in Sciascia se si riesce a leggerlo con serenità c’è soprattutto il sentiero dell’ambiguo che gioca sulla corda del profetico, dell’avventura e del mistero – destino. La realtà comunque è altrove in letteratura. Sciascia lo aveva capito molto bene.

Io con Sciascia ho attraversato il sogno del “cavaliere” errante e gli orizzonti di morte. Oltre c’è la letteratura che si fa vita. In una conversazione abbiamo parlato anche di questo.

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