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Come scritto in conclusione del precedente articolo, secondo il parere di Giovan Giovine, letterato di grande prestigio, «[…] Grottaglie venne fondata nel 1297 quando, su petizione dell’arcivescovo di Taranto Enrico, Roberto, duca di Calabria, concesse che i casali di Salete e altri si aggregassero al casale di Grottaglie “ob belli discrimina”, cioè a causa dei pericoli di guerra». Secondo il Caraglio ciò non equivale a un atto di fondazione ma a un ingrandimento del “casale Cryptaleaurum” che già esisteva, per cui le origini devono risalire a un periodo più lontano. Da questo momento in poi la storia di Grottaglie sarà legata a quella degli arcivescovi tarentini.

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L’importanza di Giacomo d’Atri

Infatti, proprio un arcivescovo, Giacomo d’Atri fece costruire il castello che nel XV secolo conosce una notevole utilizzazione militare, la chiesa Matrice e le mura di cinta che proteggevano la cittadina. Dopo la morte di Giacomo d’Atri, che qui soggiornò a lungo, Grottaglie fu contesa da molti principi locali e grazie all’intercessione di Giovanni Antonio Orsini, principe di Taranto, riuscì a ritornare nelle mani degli arcivescovi. Inizia così il periodo dello sdoppiamento della potestà feudale: da una parte la giurisdizione civile riservata agli arcivescovi e dall’altra quella criminale riservata al barone laico.

Questa divisione giurisdizionale fece insorgere il popolo grottagliese che era costretto a servire due feudatari. È sui contadini, artigiani e commercianti che gravava il pagamento di gabelle, decime e servitù varie, dal momento che clero e nobiltà godevano di privilegi ed esenzioni che li erano stati concessi sia dalla Curia tarentina che dall’autorità civile in virtù della cosiddetta “immunità ecclesiastica”. Fino al 1558 Grottaglie figurava come una terra a disposizione della Curia reale per bilanciare certe operazioni diplomatiche.

Infatti dallo Scriva, parente degli Aragonesi, passa a Isabella d’Aragona e a Bona Sforza; durante i loro governi la cittadina visse un periodo tranquillo. Dopo gli Aragonesi il feudo passò nelle mani di signorotti genovesi e fiorentini, particolarmente avidi e avari, motivo per gli abitanti di insoddisfazione ed esasperazione.

Il culmine di questo stato di miseria e avvilimento si avrà nel 1647, anno della rivoluzione di Napoli e dei disordini in tutto il regno contro la dominazione spagnola, a cui anche la tranquilla Grottaglie partecipò. Il Seicento per Grottaglie fu un secolo fatto di luci e ombre, e di contraddizioni; da un lato le oppressioni, le rivolte, la miseria, dall’altro una grande stagione culturale. Si affacciano sulla scena culturale personaggi come Domenico e Giuseppe Battista, Antonio Caraglio, Giacomo Pignatelli e S. Francesco De Geronimo.

Si assiste alla fuga delle braccia lavorative e produttrici mentre chi rimaneva doveva sottostare all’inasprimento delle tasse. Non deve stupire se molti cittadini chiesero di essere aggregati al clero, non per vocazione ma per usufruire dell’immunità ecclesiastica. Di conseguenza, si palesa il fenomeno dell’aumento sproporzionato del numero degli ecclesiastici in concomitanza di un periodo di grande difficoltà economica, fenomeno che interessò anche altri centri urbani vicini. Il Settecento fu sconvolto dalla violenta sollevazione scoppiata negli anni ’30 e dalla ripresa della lotta giurisdizionale sul feudo, le cui cause si riconoscono nel dispotismo del feudatario laico o nella mal tollerata usurpazione da parte degli arcivescovi.

La rivolta degli artigiani

La rivolta partita da un piccolo gruppo di artigiani ben presto coinvolse tutta la cittadinanza che riuscì a prendere il potere, dopo una serie di disordini e razzie di cui fu preda anche il Duca Cicinelli che cadde nelle loro mani. La protesta fu stroncata da un esercito di soldati spagnoli che catturarono e condannarono i rivoltosi. Dopo questo episodio Giovan Battista Cicinelli dovette rinunciare al feudo di Grottaglie che aveva ingiustamente usurpato alla nipote Giulia che, a sua volta, l’aveva ricevuto in eredità dopo la morte del padre. La duchessa Giulia andò in sposa a Giacomo Caracciolo dei duchi di Martina, sancendo l’unione tra le famiglie Cicinelli e Caracciolo che durerà fino all’abolizione della feudalità.

Il ducato fu ben presto conteso dall’arcivescovo tarantino che ne rivendicava l’usurpazione dei diritti feudali da parte dei principi laici. Questa contesa fu portata a termine dal presule Monsignore Capecelatro, il quale concesse ai Cicinelli – Caracciolo in fitto perpetuo tutto il territorio e i diritti feudali ad esso annessi. Ma né gli arcivescovi, né i feudatari laici riuscirono a godere della pace appena raggiunta a causa della legge napoleonica del 1806 e delle successive del Regno d’Italia che abolirono la feudalità e cancellarono anche i diritti e i privilegi di nobili e clero. I tempi stavano cambiando, si stava diffondendo una nuova concezione politica della società. I primi segnali di una volontà rivoluzionaria e democratica si erano già manifestati a fine ‘700 con l’innalzamento, in vari centri del Regno, dei cosiddetti “alberi di libertà”.

Arriva l’Unità d’Italia

Grottaglie non si tirò indietro, nonostante i disordini e le difficoltà, manifestando i suoi sentimenti rivoluzionari. Quello fu un periodo fatale per il monachesimo possidente colpito dalla soppressione degli Ordini religiosi, dalla confisca e incameramento dei loro beni. Grottaglie fu preda di assalti e spoliazioni frequenti cui il potere centrale cercò di porre rimedio attraverso azioni violente volte alla riaffermazione della propria autorità. Il 1861 sancì l’unità d’Italia e Grottaglie visse questo avvenimento come gli altri paesi del Meridione. Le nuove amministrazioni, pur tra le tante difficoltà, cercarono di risolvere gli enormi problemi che i paesi dovevano affrontare nel periodo postunitario tra cui il lavoro, l’istruzione, il brigantaggio, l’igiene pubblica, il risanamento urbanistico e l’illuminazione.

Un’ondata di distruzione coinvolse la cittadina in nome della libertà e della democrazia. Furono abbattute Porta S. Angelo, le mura che cingevano la città, numerose lapidi, stemmi, affreschi e iscrizioni simboli di un passato buio e oppressivo che si voleva cancellare in favore in uno spirito innovativo e moderno che deve fare i conti con enormi problemi quali miseria, carestia e disoccupazione che portano all’ennesima sommossa popolare.

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