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Cosa è stata la lingua in Ugaretti? Cosa è stato Giuseppe Ungaretti nella poesia del Novecento?

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Si potrebbe usare un concetto chiarificatore: la metafora dell’esistenza tra il dolore e la terra promessa lungo un viaggio in cui si intrecciano i naufragi e l’ironia che vive nell’allegria. Un poeta del Mediterraneo in cui l’insondabile diventa esilio. Ungaretti cerca nel porto una memoria sepolta. Il porto è sepolto ma la memoria è uno sbatter d’acqua. La metafora dell’esilio della notte è un viaggiare sia tra l’esilio che nella notte che si affaccia e separa il giorno. Tra luce e buio: la lingua. Un navigare nel gioco delle attese che sono intagli di memoria e ritagli di tempo. Nei vicoli e nel labirinto la parola diventa eterea e assorbe una metafisica dell’anima. Qui la terra promessa vive la metafora e quel suo immenso illuminato si fa traghettamento di memorie.

La poesia non racconta

La poesia non racconta. La poesia resta sospesa come pioggia leggera sui vetri di una finestra, misurando il tempo. Il tempo del verso è un echeggiare di incontri nelle testimonianze. In quel tempo vissuto, abitato, misurato dal proprio esistere, ci sono percorsi di esistenza. In ogni percorso si individua il silenzio e l’urlo, il grido e il taciuto di uno spazio che raccoglie tutte le metafore possibili non per raccontarle, ma per trasformarle in mistero.
Di mistero sono fatti i tracciati ungarettiani che si ritrovano oltre il leopardiano superamento del colle o della siepe. Ungaretti ha inventato una nuova lingua della poesia. Su questo bisogna ben comprendersi. La lingua italiana é l’espressione della cultura italiana. Leopardi è punto di riferimento. Così come ogni cultura é l’espressione di una lingua. Il percorso della lingua è un interfacciarsi con modelli di civiltà. Ormai è accertato che la lingua italiana occupa la quarta posizione tra le lingue del mondo. Un fatto non relativo e altamente positivo in un tempo in cui si cerca di recuperare anche la forma dialettale delle lingue, creando delle contaminazioni.

Il ruolo della lingua italiana

La lingua italiana, nata da un contaminato di linguaggi, diventa un punto fermo all’interno di quei processi culturali in cui la comunicazione del linguaggio è comunicazione antropologica, sociologica, linguistica, arrivando ad occupare un’interrelazione all’interno del contesto mondiale significativo.
Ho attraversato diversi percorsi visitando molti paesi, portando la lingua italiana nel mondo dal Sud America ai Paesi balcanici e mi sono reso conto che c’è stata sempre una forte simpatia e vicinanza non solo alla lingua italiana, ma soprattutto alla cultura italiana. Ciò significa che il modello greco-latino occidentale, sul piano culturale e linguistico, non solo è conosciuto ma studiato attentamente. Leopardi viene ri – portato alla ribalta proprio da Ungaretti oltre che da Cardarelli. Gli studi di Ungaretti su Leopardi non sono soltanto di natura poetica ma anche linguistica.
La storia di un popolo, di una civiltà, di una visione identitaria ha permesso di leggere tutta una realtà storica e linguistica. La realtà storica si forma sui processi culturali che, a loro volta, nascono da visioni e da interpretazioni linguistiche.La lingua è comunicazione. Attraversare una lingua significa attraversare e conoscere una cultura. Ungaretti ha penetrato i sostrati di questo viaggio linguistico per giungere alla “sua lingua”. Un lingua in cui il mistero metaforico resta fondamentale.

Il mistero della parola della poesia

Il mistero accompagna sempre la parola della poesia. Perché non c’è mistero. C’è segreto. Segreto non rivelante. Questo segreto non rivelante trasforma la parola in preghiera. Una preghiera laica che ha del religioso il senso del divino. Perché la poesia, anche nella laicità della profezia stessa, vive di una grande dimensione, che è quella della Provvidenza. La terra promessa, in fondo, è una Provvidenza in cui i fili del tempo sono naufragio e porto. Mare d’altura e terra.
Siamo tutti verso una terra, verso un mare da navigare o navigato. La poesia è l‘espressione di tutto ciò. La poesia diventa testimonianza di una conoscenza che è coscienza. Questi due aspetti, coscienza e conoscenza, sono dentro il portato metafisico della parola divenuta preghiera e raccolta dal vocabolario poetico. L’Ermetismo è la rivoluzione del vocabolario e il linguaggio, in Ungaretti, diventa la vera visione del mirabile. La mirabile visione è nel verso ed è nello scorrere delle parole, parole come fiumi.
Qui si innesca il vero specchio che, comunque, va sempre in frantumi. Uno specchio in frantumi ci riporta a Oscar Wilde, ma uno specchio frantumato è anche la possibilità di leggere in ogni scheggia quella memoria che è dentro il tempo. La poesia si raccoglie in questi estremi ed è sempre una scheggia appuntita che proviene da questo specchio rotto e frammentato. Il tempo è un tempo riflesso nello specchio.
La conoscenza di una lingua, o l’apparentamento nei confronti di una lingua, ci porta ad approfondire le radici di quella determinata lingua. Le radici della lingua italiana sono all’interno di un processo profondamente occidentale. La lingua italiana, al di là del dibattito sul “De vulgari eloquentia”, che ha permesso di sviluppare un percorso tra la lingua latina e la lingua volgare, ha dato il segno tangibile di come una lingua possa svilupparsi all’interno di una dimensione storica.

Il dibattito sulla lingua in Italia

Il dibattito sulla lingua in Italia ha sempre tracciato e lasciato dei segni indelebili, dal 1200 – 1300 fino al percorso bembiano. Il Rinascimento nasce all’interno di una civiltà delle culture, ma anche attraverso il dibattito di Bembo sulla questione della centralità della lingua. Un processo che è possibile verificare anche nei secoli successivi sino a al suo Leopardi. La lingua barocca, che ha avuto origine all’interno del contesto lessicale semantico barocco, ha come dimensione le culture barocche che si sviluppano dal Regno di Napoli fino a tutta l’Europa e in seguito anche in Brasile. Si pensi al barocco brasiliano che parla il linguaggio che era del Regno di Napoli, fino ad arrivare al grande dibattito leopardiano sulla lingua contestualizzata nella temperie tra Leopardi e Manzoni.
Con Manzoni si unifica un concetto di lingua omogenea che non resterà mai tale, perché sono i dialetti che insistono. Ecco perché ho sempre sostenuto che la lingua italiana è il concentrato dei dialetti, quando il dialetto assume l’identità di una comunità. Ungaretti ha attraversato questi percorsi creando una griglia simbolica. Ma Leopardi ha il sopravvento su tutto grazie al recupero ungarettiano.
La frammentazione del tempo è dentro il vetro rotto. Ovvero, la frantumazione che crea frammenti dello specchio è il recupero di quella goccia di pioggia che elegantemente tocca il vetro della finestra. Ogni goccia è una sillaba. Ogni sillaba, nel viaggio poetico ungarettiano, ha bisogno di altri segni per formare la parola e la parola ha dentro di sé un vocabolario estetico che possiede una sua sensualità e una sua estasi in cui tutto ha un senso finché esiste un orizzonte. Ed è per questo motivo che la poesia crea e ricrea, dice e ripete tutto un tracciato che è dentro la nostra esistenza di uomini, la nostra esistenza di poesie e di poeti. Un viaggio sempre incompiuto. Il poeta Ungaretti è un navigante di dolore e di speranze.

La poesia è un incontro

In fondo, la poesia è un incontro. Un incontrarsi. La poesia è sempre questo incontro che ci permette di ristabilire, con il nostro vivere e con quella parte che è la consuetudine dell’esistenza, il mosaico che è composto dai tasselli di tutto ciò che siamo.Esistere nel tempo di questo mosaico significa ristabilire quelle eredità che sono eredità in cui il senso del trasporto esistenziale diventa trasmissione di tradizioni. Si vive, in fondo, di tradizioni e la poesia raccoglie questo essere e questo “restare dentro la parola”.
L’attuale discussione sulla lingua italiana come quarta realtà comunicativa del mondo, lascia intendere che questa realtà ha assorbito tutte le dimensioni storiche, politiche di un Occidente che è stato un Occidente Mediterraneo italiano. Quando Cristoforo Colombo va nelle Americhe si porta dietro il dialetto genovese, il dialetto ligure, il dialetto veneziano e tutto un contesto pre-rinascimentale della cultura umanistica. Quindi, dentro questo rapporto tra cultura umanistica rinascimentale, porta nelle Americhe una storia che è quella della civiltà dell’Occidente e del Mediterraneo italiano. Aspetti che Ungaretti è riuscito a manifestare nel suo linguaggio che è diventato una dimensione della lingua.
Oggi si riscopre questa visione della lingua italiana e si riscopre, accanto alla lingua italiana, la cultura italiana. Si pensi alla letteratura. Alle grandi personalità che hanno disegnato la geografia culturale mondiale. Da Dante a Machiavelli. Da Machiavelli a D’Annunzio. Personalità che hanno parlato la lingua italiana pur attraverso le dimensioni del dialetto e si sono innescate all’interno di quelle realtà e nazioni che hanno avuto la volontà, la possibilità e la capacità di approfondire una comparazione o una contaminazioni di culture.
Non mi meraviglio affatto che la lingua italiana sia considerata la quarta lingua. Anzi, ritengo che possa essere considerata anche la seconda o terza lingua, perché la lingua non viaggia mai da sola, ma sempre accanto a delle definizioni a delle contestualizzazioni culturali. Dante è studiato in tutto il mondo, esattamente come Manzoni. È chiaro che Ungaretti rompe con la tradizione che si ergeva sulla lingua manzoniana e carducciana.
Queste particolarità sono parti integranti di un processo di civiltà. La cultura latina la troviamo dappertutto. Ovidio, per esempio, è la personalità che ha disegnato una dimensione ben definita all’interno di una visone culturale. Bisogna ragionare su questi aspetti e promuovere sempre più la cultura italiana nel mondo. È un dovere per uno scrittore rappresentare la propria appartenenza. Io mi caratterizzo attraverso la lingua che parlo. Ungaretti dal suo porto sepolto sino ai suoi saggi, e viceversa, è stato il creatore di un modello in cui l’epicentro è stato Leopardi.

Vincenzo Cardarelli e Giuseppe Ungaretti

L’alchimia leopardiana “invade” il primo decennio del Novecento e lo fa, in modo particolare, con due poeti che aprono realmente l’età della modernità: Vincenzo Cardarelli e Giuseppe Ungaretti, i cui parametri, hanno eredità, in un certo qual modo, di matrice pascoliana. Sarà Cardarelli a rompere con la tradizione filtrata da Pascoli e lo fa con una motivazione poetica più che culturale.
Il punto di “divisione” è proprio Leopardi, il quale attraverso la rivista “La Ronda” diventerà il riferimento principe. Ma Ungaretti dedicherà a Leopardi delle lezioni magistrali il cui obiettivo è quello di dare un senso al Novecento poetico scavando non nel ‘nido’ ma nel ‘borgo’. Un Ungaretti mediterraneo le cui radici scavano in quell’Alessandria d’Egitto che è centro tra Oriente ed Occidente. Siamo a 50 anni dalla morte. Ungaretti era nato il 10 febbraio del 1888 a Alessandria d’Egitto e morto a Milano l’1 giugno 1970.
Nel primo Novecento, che eredita un Ottocento carducciano, si era completamente sviluppato un tessuto che troverà una chiave di lettura in alcuni autori che vanno da Pascoli e D’Annunzio attraversando tutte le fasi dei “Crepuscoli” con i quali il verso moderno si farà modello nella semantica contemporanea. Ovvero, quel verso che rivoluzionerà il linguaggio si ascolterà con altri poeti e con altre tensioni e troverà in un autore come Giuseppe Ungaretti la sintesi e il travaglio di una parola sofferta, che si consoliderà in quel tempo del linguaggio che accomuna l’onirico, l’esistenziale e il dolore, come consapevolezza dell’uomo, pur in un percorso nel quale il segno religioso diventa una costante problematica dell’essere.
La parola così è uno scavo e il linguaggio si fa misura “leopardiana”, ripresa dall’ultimo Pavese, di un dialogo sempre vivo tra la vita e la morte in quel tempo dell’uomo che conosce l’attesa e la speranza. Ebbene, il linguaggio, la metafora e la lingua in Ungaretti (e si leggerà anche in Pavese ultimo) non sono altro da sé. Ma vivono nella coscienza di una comunicazione interiore.

Il ruolo dell’Ermetismo

C’è da dire che l’Ermetismo è stato l’asse dello sviluppo poetico degli anni Trenta. La rivista “Primato”, nei primissimi anni Quaranta, seppe cogliere lo spirito di quella temperie e avviò una discussione abbastanza articolata tanto che trovarono spazio, sulla rivista, poeti e critici che furono l’anima di quel particolare contesto storico – letterario.
In fondo la poesia Ermetica aveva caratterizzato già la poesia di quegli anni. Giuseppe Ungaretti fu il protagonista del rinnovamento poetico. Le sue prime poesie risalgono ad anni anteriori rispetto all’esplosione dell’Ermetismo.
Ungaretti poneva in essere una questione linguistica e lirica consistente che trovò nell’Ermetismo un punto di forza. Anzi fu l’Ermetismo a trovare nell’esperienza ungarettiana un modello poetico ben definito. “Primato” seppe raccogliere le istanze critiche e poetiche alzando il tono di una discussione teorica seria e matura.
Sul numero 9 dell’1 luglio 1940 (numero con il quale si interromperà il dibattito) la posizione di Titta Risa è ben rappresentata grazie anche alla citazione di alcuni dei poeti ermetici e alla differenziazione che fa tra un poeta e l’altro: “…è impossibile confondere il linguaggio di Ungaretti con quello di Quasimodo, e non percepirne subito la diversità del sentimento e del tono…Ora, cogliere questa diversità e descrivere l’individualità poetica di ciascuno, se in un primo tempo si può fare nell’ambito di una poetica generale (…) in un secondo tempo, che è operazione propriamente critica, bisognerà farlo nel seno stesso dell’individualità d’un poeta: isolando dalla lingua … comune di quella corrente del gusto, il linguaggio proprio del poeta in esame”.
Mi pare un’osservazione di quelle ben marcate in termini di approfondimento storico – critico che supera ogni incasellamento meta-ideologico. Sempre su questo fascicolo interverranno Arnaldo Bocelli e Danilo Bartoletti. Il primo si soffermerà su una interessante chiosa: “Accanto alla parola preziosa, di impronta dannunziana (di un D’Annunzio ricevuto attraverso la poesia ermetica), o alla erudita, è la parola tecnica di un tecnicismo spesso desunto dalla critica delle altre arti, massime della pittura, e della musica (da quella critica, cioè, che più è stata restia nell’accogliere l’idealismo)”.
Accanto alla lingua ci sono i simboli, il mito, le metafore, il dolorante segno metafisico di una classicità sofferta. È Ungaretti, comunque, che ci trasmette una delle sensazioni più toccanti con quei suoi versi dedicati a Didone: “Ora il vento s’è fatto silenzioso/E silenzioso il mare,/Tutto tace; ma grido/Il grido sola, del mio cuore,/Grido d’amore, grido di vergogna/Del mio cuore che brucia/Da quando ti mirai e m’hai guardata/E più non sono che un oggetto debole.// Grido e brucia il mio cuore senza pace/Da quando più non sono/Se non cosa in rovina e abbandonata”.
Ungaretti dirà: “Devo riconoscerlo c’è uno stimolo eruttivo, non so quali ingiunzioni alla rivolta, all’anarchia sempre in me”. E ancora Ungaretti: “Solo più tardi arriverò a sentire in tutta la sua grandezza e la sua segreta potenza quell’uomo precursore, in un certo senso, che fu Nietzsche”. Un precursore dunque. E Ungaretti aveva ragione.
Che Giuseppe Ungaretti sia uno dei poeti più importanti del nostro Novecento non c’è assolutamente da meravigliarsi e da discutere. Si tratta di un poeta di rottura sul piano linguistico e un poeta che fa della metafora della parola una tensione espressiva, che si traduce sul piano della comunicazione.

La Poesia come metafisica dello spirito

La poesia, e in modo più specifico la letteratura, è metafisica dello spirito ma è anche dimensione dell’esistere. I due riferimenti di temperie che potrebbero confrontarsi sono Ungaretti e Pavese nel tracciato di una metafisica che riscopre il dolore della classicità e la tradizione della metafora.
Bisogna ritornare alla poesia. Ha sottolineato Mario Luzi: “Spero in un uomo che si appartenga e non sia alieno a sé stesso, quale invece rischierebbe di divenire se la poesia cadesse in completa disgrazia e fosse oggetto di abiura”. L’uomo deve appartenersi in questa nostra epoca di disappartenenza. Questo è il vero messaggio e la poesia ha un compito non solo letterario, ma anche umano, etico e religioso. Ungaretti resta il punto di riferimento e il legame tra modernità e contemporaneità resta: Giacomo Leopardi. Cardarelli, Ungaretti e Pavese sono i continuatore del misticismo della parola che si fa metafisica dolorante.

Leopardi e Ungaretti

Con Leopardi, Ungarettri traccia una poesia ma soprattutto crea un nuovo modo di “fare” poesia. Una espressione che non ha alcun raccontare. Il poeta e lo scrittore sono dentro la lingua. Sono la lingua. Ungaretti, oltre ad un inteso immaginario, ha costruito il processo linguistico moderno. La lingua di Leopardi passa attraverso “La Ronda”, rivista principalmente di Cardarelli, ma viene “imposto” nella contemporaneità da Ungaretti. Parola come capacità e come fortezza di ciò che siamo stati, di ciò che esprimiamo, di ciò che vorremmo che la nostra anima conservasse fino ad un infinito che consideriamo eterno.
Infatti è nella terra promessa che Ungaretti vive il senso di eterno e di dissolvenza del tempo presente. Una griglia di archetipi oltre la storia. La storia! L’avventura? Ungaretti è sempre oltre la storia, anche nei suoi versi del porto sepolto o della allegria che recita il naufragio.

Giuseppe Ungaretti era nato ad Alessandria d’Egitto l’ 8 di febbraio del 1888 e muore a Milano l’1 di giugno del 1970. Un poeta nella lingua del Novecento.

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