San Francesco de Geronimo
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Edificata nel 1832, consacrata nel 1916 e proclamata Santuario nel 1941, la chiesa è dedicata al santo grottagliese Francesco de Geronimo, le cui spoglie mortali sono custodite in una urna alloggiata in una cappella laterale e adiacente alla abitazione del santo.

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Il desiderio di voler edificare un luogo di culto al santo gesuita è ben precedente al 1806, anno della sua beatificazione, e si concretizzò nell’idea di costruire una chiesa proprio nel luogo in cui Francesco nacque e si realizzarono i primi miracoli a lui attribuiti.

La piccola casa vicina alle “scalelle” ed alla chiesa di Santa Maria della Serra faceva parte di un complesso edilizio di quasi cinquecento metri quadrati, che comprendeva anche un palazzotto ed una abitazione terranea.

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Dal progetto alla realizzazione

La casa natale di Francesco, figlio primogenito di Gian Leonardo e Gentilesca da Gravina, fu acquistata dal principe di Cursi e duca di Grottaglie Giacomo Caracciolo Cicinelli in segno di reverenza e devozione verso il sacerdote gesuita, proprio per realizzare una chiesa da destinare al culto di Francesco e alla fine di novembre del 1806 gli eredi del Cicinelli chiesero alle autorità civili di poter rendere possibile la realizzazione del desiderio del loro avo.

Il progetto vide l’impegno di due architetti gesuiti: P. Cavallo S.I. curò il progetto mentre la rifinitura interna è opera di Giovanni Battista Iazeolla e fu ispirato – come è facilmente comprensibile – alla chiesa del Gesù Nuovo di Napoli, dove Francesco de Geronimo svolse la sua missione terrena. Si racconta che nell’ottobre del 1827 giunsero a Grottaglie, provenienti da Lecce, il P. Provinciale della Provincia Napoletana, Giuseppe Vulliet accompagnato dai PP. Nicola Sorrentino e Luigi Solari. I sacerdoti espressero la loro devozione visitando la casa del santo gesuita e in quella occasione vennero a sapere che già da tempo si stavano raccogliendo tra la popolazione – senza distinzione di censo e classe sociale – i fondi necessari a realizzare l’opera.

La prima pietra della costruenda chiesa fu benedetta nel 1830 dall’allora arcivescovo di Taranto Giuseppe Antonio De Fulgure ma la costruzione cominciò di fatto nel 1832, come testimoniato da una lapide posta all’interno della chiesa stessa, sulla destra della porta principale e fu completata nel 1838, un anno prima della canonizzazione, avvenuta a Roma il 26 maggio 1839. Un tempo di realizzazione tutto sommato breve, grazie anche al lascito testamentario del canonico Francesco Saverio Paritaro ed alle munifiche offerte dei tanti fedeli grottagliesi, che contribuirono al pagamento delle maestranze, provenienti anche dalle vicine Francavilla Fontana e Ostuni, mentre molti furono i concittadini che prestarono gratuitamente la loro opera.

L’interno del santuario

L’edificio, una volta realizzato, inglobò le tre stanze (due al pianterreno ed una al primo piano) della casa natale del santo e si presentò con una facciata, espressione un severo ed elegante stile neoclassico, realizzata in pietra calcarea dura, dotata di tre porte e abbellita con pilastri e lesene scanalate terminanti con capitelli ionici che sostengono un timpano triangolare sormontato da tre acroteri.

L’interno è a croce greca – ovvero sia le navate longitudinali che il transetto trasversale hanno uguale lunghezza – e si sviluppa su tre navate divise da pilastri di ordine corinzio, con un abside e una cupola circolare che, con i suoi altre venti metri d’altezza, domina le basse case circostanti, sembra rivaleggiare con il possente mastio del Castello Episcopio e pare voler ricordare – insieme alla cupola della Chiesa Matrice – la fede dei grottagliesi verso i loro santi patroni.

Sulla sommità del cupolino si aprono otto finestre che danno luce all’ambiente e fanno splendere le decorazioni e i dipinti che abbelliscono la cupola stessa; nelle velette Domenico Carelli di Martina Franca ha dipinto i simboli dei quattro evangelisti, mentre sull’anello di raccordo al tamburo si legge una citazione biblica tratta dal libro di Giobbe che si può tradurre come: “Io ero gli occhi per il cieco, ero i piedi per lo zoppo. Padre io ero per i poveri”.

Tutto l’interno dell’edificio è abbellito da opere d’arte ricche di colori e suggestioni; tra queste spiccano le quattro tele provenienti dal Museo di Napoli e donate del Re Ferdinando II delle Due Sicilie al Padre Quintino Rao. Il primo quadro, che troviamo entrando sulla destra, raffigura la Madonna del suffragio con le anime del Purgatorio e risale al primo ‘500 napoletano; il secondo, posto dopo l’altare dell’Immacolata, è di scuola fiamminga e ricorda il martirio di S. Orsola; il terzo – che raffigura la Madonna del Rosario – è esposto nei pressi della porta a sinistra mentre il quarto, che ricorda il martirio di S. Bartolomeo, è opera di Cesare Fracanzano e posto prima dell’altare del Santo.

Abbiamo ancora una Crocifissione, opera di Marco Pino e le tele sull’altare maggiore, opera del pittore grottagliese Arcangelo Spagnulo mentre, nella cappella dedicata a S. Giuseppe, spicca un ovale che riproduce il Miracolo delle rose, opera di Ciro Fanigliulo. Molto belli anche gli affreschi sulle pareti, opera dei pittori Domenico Antonio Carella, Ciro Fanigliulo e Arcangelo Spagnulo.

Del primo, in particolare, merita una menzione particolare l’apoteosi del Santo che benedicente si eleva al cielo, non fosse altro che perché – insieme allo stemma della Compagnia di Gesù sorretto da due leoni realizzato in traforo da Francesco Quaranta – è oggi coperto alla vista dall’organo alloggiato nel tamburo centrale.

Proseguendo nell’ammirare le tante opere d’arte presenti nel santuario, dobbiamo citare gli altari presenti delle navate laterali. Quelli antichi, in legno, furono sostituiti nel 1916 da due altari di marmo lavorati a punta di scalpello. Quello a destra è dedicato all’Immacolata ed ospita una statua della Vergine realizzata a Parigi e ispirata alla Madonna di Lourdes. L’altare a sinistra è dedicato al Sacro Cuore di Gesù, rappresentato da una statua in cartapesta realizzato dal noto Giuseppe Manzo di Lecce.

L’altare a destra dell’abside è dedicato a S. Giuseppe, a al suo fianco è esposta una tela raffigurante la Madonna di Pompei con i misteri del Rosario, donata ai Gesuiti del beato Bartolo Longo, che spesso era in Grottaglie a fare visita alle nipoti.

 

La cappella del Santo

Soffermiamoci ora sulla cappella dedicata a Santo Francesco de Geronimo, che troviamo in fondo alla navata sinistra. Colpisce subito il parapetto in marmo con dei cancelletti in ottone, opera dell’architetto Michele Giannico, poi lo sguardo si alza e contempla il dipinto realizzato dal grottagliese Ciro Fanigliulo, detto “Lu Milordu”, che riproduce il miracolo del pane. All’ingresso della cappella è murata una lapide che ricorda sia l’anno 1941, in cui la Chiesa fu dichiarata Santuario da S. E. Mons. Ferdinando Bernardi, Arcivescovo di Taranto, che l’anno 1945 quando il 26 agosto il corpo del santo fu traslato da Napoli a Grottaglie.

La cappella simbolicamente rappresenta il transito terreno del santo grottagliese; è stata infatti costruita nella stanza dove Francesco vide la luce, sulla sinistra custodisce, all’interno di una teca dorata, la maschera in cera del Santo presa nelle ore successive alla sua morte e sull’altare vede esposta l’urna di bronzo, realizzata dalla ditta Vincenzo Catello di Napoli, cesellata con fregi d’argento e rivestita di velluto rosso che custodisce le spoglie mortali di San Francesco rivestite da un simulacro in cera che mostra il santo disteso e rivestito con l’abito sacerdotale in cotta e stola.

Centro focale della cappella è – ovviamente – l’altare, che ottenne il riconoscimento di “privilegiato” da Gregorio XVI con un documento della Congregazione delle Indulgenze datato 9 marzo 1845 e così, se sulla sua parte superiore abbiamo il ricordo della morte di Francesco, sulla parte inferiore dell’altare è invece presente un bassorilievo che ne rappresenta la sua venuta al mondo, con l’immagine di entrambi i genitori e del neonato con il volto illuminato da un raggio di luce che penetra da una finestra, evento che molti affermano avvenire ogni anno, il primo pomeriggio del 17 dicembre, giorno della nascita di Francesco, una sorta di evento curioso – se non prodigioso – che si appaia con la presenza di una rientranza concava sul pavimento, che si vuole essere stata causata dall’impatto sul pavimento dalla testa del neonato, che dalla caduta non riportò però danno alcuno.

Il bassorilievo sull’altare è un opera artistica realizzata in un unico pezzo da Arcangelo
Spagnulo e Vincenzo del Monaco, e non è l’unica testimonianza della fede e dell’ingegno di questa famiglia di insigni artisti artigiani, poiché è di Orazio del Monaco, figlio di Vincenzo, il gruppo scultoreo ospitato sull’altare maggiore mentre il nipote Vincenzo, è autore dell’ambone, la struttura architettonica sopraelevata dalla quale vengono proclamate le letture.

Nella prima metà del secolo scorso la cappella dedicata al Santo fu arricchita di ornamenti e arredi a devozione del santo gesuita; nel 1929 la Signora Carmela Lazzaro Motolese fece rivestire di marmo le pareti e il pavimento, mentre l’anno successivo ancora Ciro Fanigliulo ne dipingeva la volta con schiere angeliche impegnate a cantare le lodi di Francesco e allegorie simboliche della fede cristiana come l’agnello, l’eucarestia, grappoli d’uva e spighe. Nei medaglioni che decorano le pareti, i richiami alla fede popolare e dell’ordine gesuita, con i volti della Vergine della Mutata, di San Ciro, Sant’Ignazio di Loyola, San Francesco Saverio, San Luigi, Sant’Alfonso dei Liguori (a cui san Francesco predisse vita lunga e santa) e San Giovanni Berchmans.

Come purtroppo accade molto spesso, affreschi e decorazioni stanno subendo l’ingiuria del tempo e necessitano di ampie ed accurate manutenzioni, necessità a cui il parroco del santuario richiama tutti i fedeli con allarmata ricorrenza, prima che queste preziose opere d’arte vadano perse per sempre.

Un’altra particolarità della cappella dedicata al santo, che non sempre riceve la dovuta attenzione da parte dei visitatori – è la presenza di due lampade votive; una è stata realizzata in cesello veneziano ed è dono del Generale Antonio Cerbino, l’altra è in ceramica, opera dell’ingegno tecnico ed artistico del prof. Vincenzo Giovanni Spagnulo (detto “Iadduzzu”), che fu donata dal Comune di Grottaglie in ottemperanza della delibera del consiglio comunale del 22 maggio 1952.

Dopo un anno, e più precisamente l’11 maggio del 1953 questa lampada venne posta in opera di fronte ad una folla curiosa convenne ad ammirare l’opera di fede e devozione che che così venne descritta da padre Michele Ignazio D’Amuri in un articolo pubblicato su “Tornate a Cristo”, mensile del Santuario gesuita grottagliese: “Lampada originale! Un anello, una specie di fascia zodiacale, recante la scritta dedicatoria, la recinge in senso orizzontale ripartendola in due calotte: sul margine della armilla siedono 4 angeli d’oro e si innestano quattro catenelle che convergono verso l’alto e si agganciano ad un anello di sostegno. Il globo, laccato in delicato verde pisello, non è ne’ opaco ne’ cieco chè la verde convessione della calotta superiore è trapunta di margherite d’oro. Quando il globo si illumina all’interno, chè è tutta luccicante patina d’oro, la vaga e varia opera di traforo si avviva e si staglia per biondissime squillanti incandescenze, onde l’occhio è piacevolmente attratto ed incantato. Lavoro di prestigioso virtuosismo di tecnica, specialmente se si badi al ridottissimo spessore della falda di argilla su cui l’artista ha dovuto operare. Tutta traforata, la lampada presenta diversi simboli più volte ripetuti. Nella parte inferiore si notano i segni della fede e della religione; nella parte superiore una varietà di fiori ed un luccicar di stelle che preparano l’occhio allo splendore della fiammella che al centro della lampada arde nell’affetto dei devoti. Una nota tecnica: l’irregolare deformazione del cerchio e la facile rottura durante l’essiccamento, per l’incostante ritiro, è stata superata con il geniale espediente di tre cotture a diverse gradazioni. Quando si entra nel santuario, di sera, sembra che volatilizzino tutt’intorno diversi magnifici colori, per lo più perlacei

Completa la cappella, la presenza della porta d’ingresso alla casa natale del santo, protetta all’interno da una grata di ferro, mentre all’esterno questo accesso risulta murato e protetto da un cancello metallico.

L’altare maggiore

Se la cappella dedicata al santo gesuita è ovviamente la più singolare particolarità del tempio, il suo luogo più importante è – come in tutti gli edifici religiosi – l’altare maggiore, che fu costruito nel 1917 a cura dell’allora rettore, il Canonico Pasquale Marinaro.

E’ un manufatto imponente e ricco di decori, abbellito da balaustra, gradini e pavimento marmoreo che ha subito, come spesso accade alcune modifiche dovute ai lavori ed agli adattamenti avvenuti nel tempo. Fino al 1948 infatti, l’altare posizionato all’altezza del pulpito, più avanzato rispetto alla situazione attuale, ed aveva alle spalle un ampio coro, come ancora oggi possiamo vedere nella chiesa matrice o nella chiesa dei Paolotti.

L’arrivo nel santuario delle spoglie mortali di San Francesco de Geronimo e la necessità di ospitarle degnamente per esporle alla devozione dei fedeli rese necessario avare un maggiore spazio a disposizione per la realizzazione della cappella e così l’altare maggiore venne arretrato in fondo al coro e vennero abbattute le pareti laterali per realizzare l’accesso in sacrestia e nella casa natale del santo.

Vennero con l’occasione trasferite in sacrestia anche le due imponenti tele di Francesco Capuano, allora professore dell’Istituto delle Belle Arti di Napoli, raffiguranti l’una San Francesco che predica al popolo su una panca vicino a Castel dell’Ovo e l’altra da un Francesco, sacerdote novizio, che riceve la comunione da Gesù. La sacrestia venne poi completata dalla rappresentazione della gloria di S. Francesco dipinta sulla volta da Arcangelo Spagnulo detto “lu milota”, mentre le pareti ospitano quattro tele ovali di autore ignoto che rappresentano con altri eventi della vita del santo gesuita.

I quadri del Capuano trasferiti in sacrestia vennero vennero sostituite da quattro tele, anche queste realizzate da Arcangelo Spagnulo e rappresentanti la guarigione di un’ammalata, la comunione generale che si teneva nella chiesa Gesù nuovo a Napoli ogni terza domenica del mese, la profezia al piccolo Sant’Alfonso dei Liguori e Caterina, la peccatrice ostinata che grida di trovarsi all’Inferno.

Le opere di adeguamento interessarono anche l’organo con la cantoria, di cui parleremo tra poco, che un tempo troneggiava in alto, dietro l’altare, come ancora oggi possiamo vedere nella chiesa madre. Nel 1957 l’imponente strumento musicale lasciò il posto ad una ampia nicchia che dopo quasi mezzo secolo accolse una imponente opera in ceramica realizzata da Orazio del Monaco, alta quasi due metri e mezzo e rappresentante San Francesco insieme ad una famiglia costituita dai due genitori e due bambini.

Il pulpito e l’organo

Nell’ammirare le bellezze di questo santuario, è arrivato ora il momento di dedicare la nostra attenzione ad altri due particolari tanto importanti nell’alimentare la devozione dei fedeli, quanto a volte oggi trascurati dalle mutate abitudini che orientano le funzioni religiose.

Il primo di questi, bene in evidenza per chi lo voglia ancora oggi ammirare in tutti i suoi particolari, è il pulpito progettato dall’architetto Michele Giannico e inaugurato il 31 luglio 1956. L’opera non era prevista nel progetto architettonico originale e fu aggiunta in seguito, sfruttando l’appoggio ad un pilastro.

Questo gioiello di perizia e abilità realizzato dal marmista Salvatore Puzzovio è abbellito da pannelli di bronzo, opera dello scultore Cataldo Mariano e del fonditore Francesco Bisceglia, che rappresentano sia dei simboli tipici della allegoria religiosa come un giglio, la spada con il Vangelo, la semina del grano ed un manipolo di spighe, che alcuni momenti della vita e delle opere del santo grottagliese, come il piccolo Francesco che insegna il catechismo ai compagni, la predica al popolo napoletano presso il maschio Angioino, ed il santo che protegge la sua città.

Altro gioiello, purtroppo in ombra e silente, è l’organo che – come abbiamo detto – nel 1957 fu rimosso dall’abside e trasportato sopra il tamburato in fondo alla Chiesa. Si tratta di un organo a canne costruito nel 1905, a cui circa trent’anni dopo fu accoppiato un motore elettrico per renderlo più efficiente. A differenza del ben più anziano fratello maggiore ospitato nella chiesa matrice, da anni quello che fu ausilio dei canti dei fedeli non fa sentire la sua voce e sarebbe bello che una opera di restauro e recupero potesse farlo tornare a cantare come un tempo.

La cupola

Parte integrante del santuario, che forse più di altre attira l’attenzione di chi ammiri il tempio dall’esterno, è senz’altro la cupola circolare, tipica di molte costruzioni simili.

Una decina di anni fa è stata oggetto di importanti lavori di restauro ed adeguamento, volti a preservare la struttura ed a risolvere i non pochi problemi che la affliggono a causa del passare del tempo e dall’incessante lavorio degli agenti atmosferici. Tra le varie attività, merita una citazione la sostituzione delle “scandole”, quella sorta di mattonelle colorate che ricoprono e caratterizzano molti edifici “coetanei” del santuario. Le scandole esistenti, segnate dall’età e dalla inclemenza degli agenti atmosferici, sono state sostituite con altre adeguate alle esigenze e tecnologia attuali di posa. Si è trattato di porre in opera quasi 10.000 mattonelle, per il cui acquisto fu stata lanciata una sottoscrizione mirata a raccogliere i fondi necessari al completamento dei lavori, che vennero ultimati sul finire del 2017.

A differenza delle tegole, solitamente realizzate in laterizio, le scandole, dette anche “scaglie”, per via della loro forma e disposizione che ricorda l’esterno dei pesci, sono solitamente realizzate in legno per la copertura dei tetti di edifici montani, mentre sono tipicamente in ceramica policroma in molte costruzioni – specialmente di carattere religioso – nel meridione d’Italia, la cui sommità è abbellita dal gioco di forme geometriche realizzate con la sapiente disposizione di formelle di diverso colore.

La casa del santo

Pur non facendo parte dell’edificio religioso in senso stretto, non possiamo non dedicare in chiusura qualche attenzione alla casa natale di San Francesco de Geronimo, non foss’altro che per il fatto di ospitare un piccolo ma interessante museo, ricco di documenti, ricordi e reliquie.

Nelle stanze al piano terra si poteva ancora vedere un pozzo che raccoglieva l’acqua piovana da utilizzare per le molteplici necessità domestiche e la madia che conteneva il pane protagonista del primo miracolo attribuito al santo, ancora bambino. Al piano superiore numerosi cimeli e reliquie, tra cui indumenti personali, strumenti di penitenza e le stoffe che ne ricoprirono i resti mortali.

Esposti anche il decreto della santificazione, lettere autografe e l’atto di battesimo, oltre ad altri oggetti che ricordano la vita e le opere del santo gesuita.

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