Maria Luisa Spaziani
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Non c’è espressione più “spiritosa” e direi banale di quella che Italo Calvinò usò per definire la poesia di Maria Luisa Spaziani. Nata nel 1922 e scomparsa il 30 giugno scorso. Una poesia mai della “leggerezza”, ma sempre del codice della metafisica e della pesantezza del tempo proustiano. Il tempo pesante di Proust è una caratteristica che attraversa tutta l’opera della Spaziani. Un dato abbastanza naturale sia dal punto di vista esistenziale che letterario – estetico.

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A Proust dedica la sua tesi di laurea, e il suo vagare tra poeti e poesia non ha soltanto l’incrocio delle memorie perse e delle memorie che superano il razionale per diventare assurdo e presente inquietante, ma ha anche il mistico – esoterico di Elemire Zolla.

Ci sono libri di Maria Luisa che entrano nel vortice dei labirinti e incrociano una vita sperata con una vita vissuta. È vero che il suo mondo umano e letterario ruota intorno ad Eugenio Montale e al suo territorio poetico. Ma è anche vero che da “Volpe” ha saputo praticare le praterie e i boschi del suo contrasto con Cristina Campo, sulla quale non volle mai dire per motivi personali, e quindi, appunto, con Elemire Zolla (con il quale si sposò dopo anni lunghi di fidanzamento).
È anche vero che il suo sguardo si perse tra i luoghi metaforici di Aziz Izzet. È anche vero che le sue passeggiate, con il sorriso e l’ironia, trovarono la pesantezza lucida e folgorante del viaggio di Ezra Pound e delle “terre desolate” di Eliot.

È molto riduttivo allineare la figura di Maria Luisa Spaziani costantemente come fedele raccordo, innamorati o meno, di Montale. Essere affascinati è un immaginario. L’immagine nell’immaginario è la realtà di una metafora che si allunga negli anni. Nella Spaziani c’è tutto un mondo che ritrova i passi di una grecità vissuta ed ereditata, ma c’è anche una visione che non nasce dal “male di vivere” (termine scontato e leggero nella prassi del razionale letterario di un conformismo critico che è la malattia della critica novecentesca consona ad uno stilema anche ideologico), ma dalle tante incursione delle disperanti speranze che hanno uno scavo profondo proprio nel gesto del linguaggio mistico ed esoterico di Zolla.
In versi come:

Quando ti amavo sognavo i tuoi sogni.
ti guardavo le palpebre dormire,
le ciglia in lieve tremito.
Talvolta
è a sipario abbassato che si snoda
con inauditi attori e luminarie
-la meraviglia”.

Una poesia dal titolo: “A sipario abbassato”. Già il primo verso, “Quando ti amavo sognavo i tuoi sogni” è molto distante dalla poetica tutta francese, e non montaliana, del “male di vivere”, perché in esso c’è la il “desolato” (Eliot) delle terre che si camminano come se fossero deserti.
I deserti dell’anima. Non è “spiritosa”. È l’assurdo dell’ironia che recupera anche un linguaggio che è quello sì ronsardiano (a Ronsard, come alla ribellione barocca e goldoniana, ha dedicato molti studi), ma è il chiarore di una formazione culturale francese che ha sempre saputo raccontare i linguaggi inclusivi di una poetica mediterranea senza la retorica del parziale esito logico dell’abbinata Montale – Calvino. E Montale, nonostante le sue origini ligure, ha la logica dell’Occidente che non c’è nella Spaziani.

La letteratura si incontra sempre con la vita. Si pensi che a fare il testimone di nozze nel matrimonio con Zolla fu addirittura Alfonso Gatto. Si era nel 1958. Gatto rimane il poeta dei mediterranei diffusi che insieme a Ungaretti, Cardarelli, Cristina Campo, Antonia Pozzi, Raffaele Carrieri, Pavese e Caproni disegnano la linea pregnante di un novecentismo post dannunziano.
Ma quel verso del sognare i tuoi sogni è una danza che le “cifre” di Pitagora fanno danzare ai dervishi dell’infinito immateriale. Bisogna respirare lo sguardo dei poeti per capire la poesia e non lasciarsi ingabbiare dalla critica griffata o meno.
È la Spaziani che scrisse: “È un paradosso: la danza e la poesia sono tanto simili quanto profondamente diverse, ma al di là di struttura e contenuti emotivi sono unite dal ritmo. D’altronde il ritmo è sovrano di tutte le cose che hanno senso a questo mondo”.

Potrei citare alcuni suoi libri, in parte lo farò, e in tutti sono riscontrabili elementi di una ambiguità letteraria che è l’ambiguità di una formazione di un esistere non comune, ma di un esistere inquieto. L’inquietudine è Pessoa.
Ecco perché non accetto la definizione di Italo Calvino nel definire: “Maria Luisa Spaziani, un raro caso di poeta che sia insieme ispirato e spiritoso”. So bene che questa affermazione piacque alla stessa Spaziani, anche se notò una “contraddizione”. Ma i poeti sono i peggiori raccoglitori di critiche riferite alla propria poesia.

Quando ho conosciuto la Spaziani avevo appena letto quel testo che risale al 1977 “Transito con catene” che reputo, tuttora, un libro guida ma anche una poesia separante rispetto alla precedente. Ed è proprio tra questi versi che ci si avvia verso uno sgretolamento del “caos”, trasformandolo, però, in un labirinto.

Dal 1954 al 1976 il “transito” non aveva le catene ma chiedeva quasi una ragione alla parola, tranne il libro del 1966: “Utilità della memoria”, nel quale Proust è una eco insistente ma senza alcuna “maledizione” del vivere comunque. In “Geometria del disordine” del 1981 si avvisa il navigante lettore che la rotta, pur nella sua continuità, potrebbe cambiare perché ci sono stazione intermedie come nel libro edito nel 2008 “L’incrocio delle mediane” .
La “Volpe” rimane devota a Montale (anche dal punto di vista operativo con il Centro montaliano e il relativo Premio), ma non è “ispirata” come non sono ispirati i veri poeti e tanto meno spiritosi. Il poeta, dunque, ed è qui l’errore, non è ispirato. È il disordine che guida la sua Illuminazione, e quel “geometrico” è la scacchiera di Pitagora che trova in “La radice del mare” del 1999 la verità del vero del “La traversata dell’oasi” del 2002. Anche in questa spaziatura di anni c’è una rottura di ordine poetica che si chiama “Giovanna D’Arco” del 1990 e si tratta di un romanzo in sei Canti in ottave chiuso da un epilogo. Al 2012 risale “L’opera poetica”, un lavoro che è la chiosa tutta aperta del suo vivere in poesia.
Maria Luisa Spaziani è il poeta che nasce con Proust, traduce Marguerite Yourcenar, attraversa il Novecento europeo e si lascia catturare dall’isola di Alfonso Gatto e non dimentica Elémire Zolla. Ovvero non dimentica che la poesia non è fatta solo di limoni o di scale che si scendono o si salgono o di occasioni, ma è una grande magia che spagina la vita, che è quella vita nella morte o la morte nella vita. Ed è così oltre ogni montaliano regionalismo della ragione:

Ecco lo spazio magico in cui niente si è detto
ma il senso affiora da nebbie di preistoria.
Dormiamo in case lontane chilometri
ma i nostri sogni si congiungono in alto.

È così perfetta l’attesa (o l’intesa)
che sarà peccato trasformarla in parole.
Dovremmo preferire alla vita il silenzio
anche se questo silenzio è quintessenza della vita”.

Basta il titolo di questa poesia per scompaginare il vento alla critica confezionata: “Lo spazio magico”. Se si vuole raccogliere la poesia della Spaziani tra i poeti dell’esistenza della verità del vero bisogna avere il coraggio di catturare il magico nello spazio dell’anima. Perché non dobbiamo dimenticare che c’è la luna… e “La luna è già alta” (2006). Il resto non mi riguarda più.

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