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La cronaca dei recenti attentati che periodicamente sconvolgono le metropoli occidentali, così come i racconti quasi quotidiani di scontri armati tra diverse fazioni aldilà del Mediterraneo evidenziano una realtà tanto evidente quanto incredibile: l’uomo non può fare a meno della guerra.

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Con buona pace della retorica del “volemose bene” che ha doverosamente condito le celebrazioni dei 60 anni del Patto di Roma che ha dato vita alla Comunità Europea ancora oggi, nazioni occidentali e società evolute scelgono – o forse è meglio dire non possono fare a meno – di combattere, di mandare uomini e mezzi anche a migliaia di chilometri da casa, anche con motivi così evidentemente risibili che non si capisce come si possa tentare di farli passare per buoni. Poche decine di anni fa, appena aldilà del Mare Adriatico l’Occidente e l’Italia hanno assistito – inermi ed ignavi – a guerre fratricide, ignobili “pulizie etniche”, massacri scientemente organizzati e portati a termine.

Ogni volta, puntuale, la domanda che ci facciamo di fronte al racconto di questi eventi è: Perchè migliaia di uomini scelgono di vivere una esperienza che sanno da principio non porterà loro vantaggi, ma solo dolore e devastazione? La risposta che James Hillmann offre nel suo “Un terribile amore per la guerra” è sconvolgente nella sua evidenza: l’uomo ha bisogno della guerra tanto quanto la guerra ha bisogno dell’uomo. Questo libro è per certi aspetti il coronamento di un percorso trentennale dell’autore, e in diversi passaggi Hillmann parla a sé stesso prima ancora del lettore; lo stile è quello a cui l’Autore ci ha abituato: pantheon classico e psicologia moderna, profondi scavi nell’intimo per uscire alla luce della conoscenza.

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Non è un libro da ombrellone, è un testo che richiede attenzione e tempo per pensare perché, pur rifacendosi in gran parte alla esperienza della guerra di secessione americana (e qui ci sarebbe da pensare al perché le guerre di indipendenza italiane o le stragi perpetrate contro i “Banditi” che si opponevano all’Unità vengono oggi come ieri raccontate con trombonista prosopopea o vilmente taciute a seconda degli interessi, rinunciando ad affrontarle – finalmente – per quello che davvero furono…) le linee di pensiero che segue sono universali e si prestano a stimolare riflessioni anche su altri fenomeni, così terribilmente affascinanti che non osiamo confessarlo neppure a noi stessi.

Non un testo contro la guerra, ma un testo che invita, che obbliga a conoscerla per comprenderla (etimologicamente parlando…) appieno, come spiega lo stesso autore in questo passaggio: “Con tutta evidenza la storia mostra un amore imperituro per la guerra. Su questo punto dobbiamo tenere a freno il nostro pacifismo, la nostra condanna politically correct della guerra, delle sue emozioni e dei suoi strumenti: altrimenti non possiamo avvicinarci a essa. Questo fenomeno non schiuderà i propri segreti a uno psicologo carico di pregiudizi personali. Inoltre Marte ama soprattutto i nemici testardi che marciano contro di lui cantando slogan e sventolando bandiere. Il modo migliore per mettere la guerra fuori combattimento è forse quello di conoscere in modo più intimo il desiderio che se ne ha, la bellezza che possiede, il piacere che se ne prova: seguire gli stratagemmi di Afrodite per far breccia nel cuore di Ares, così da imparare cose nuove sul suo fascino. E, se è possibile penetrare il segreto della guerra, potremmo anche scoprire altri modi di soddisfare le sue richieste, altri modi di “andare in guerra” senza andare letteralmente in guerra. “

Allargando lo sguardo ed espandendo i concetti illustrati, “Un terribile amore per la guerra” può senz’altro aiutare ad analizzare agiti e pulsioni che muovono anche altre situazioni conflittuali, dalle animose campagne elettorali a mobilitazioni popolari condotte in difesa di un territorio realmente o solo ipoteticamente violato, come nel caso delle virulente campagne propagandistiche pro o contro il referendum contro le trivelle in mare ieri e contro l’approdo del TAP sulle coste pugliesi oggi. Non è un libro facile, è bene ripeterlo, perché il rischio è quello di guardare dentro di noi e scoprirci meno migliori di quello che ci stimiamo, di scoprire un “lato oscuro” che ci spaventa ed al tempo stesso ci affascina, di dover ammettere che anche noi, in maniera incomprensibile, assurda, inspiegabile e illogica proviamo “un terribile amore per la guerra” .

In un momento chiave del celebre film sul generale Patton, un memorabile George C. Scott passeggia per il campo di battaglia a combattimento finito: terra sventrata, carri armati bruciati, cadaveri. Volgendo lo sguardo a quello scempio, esclama: “Come amo tutto questo. Che Dio mi aiuti, lo amo più della mia vita”. E’ eloquente che James Hillman abbia scelto proprio questa scena, tanto spiazzante quanto rivelatrice, per introdurre il provocatorio tema del suo nuovo libro: la guerra come pulsione primaria e ambivalente della nostra specie – come pulsione, cioè, dotata di una carica libidica non inferiore a quella di altre pulsioni che la contrastano e insieme la rafforzano, quali l’amore e la solidarietà. Il presupposto è che se di quella pulsione non si ha una visione lucida ogni opposizione alla guerra sarà vana. Frantumando la retorica degli adagi progressisti – basati su una lettura caricaturale della ‘pace perpetua’ teorizzata da Kant-, Hillman risale così, in perfetta consonanza con la sua visione della psicologia, al carattere mitologico e arcaico di tale ambivalenza, riassunto nell’inseparabilità di Ares e Afrodite. In questa prospettiva tutte le guerre del passato e del presente appariranno quindi semplici variazioni della guerra più emblematica dell’Occidente classico, quella cantata nell’Iliade. Ma soprattutto, ricorrendo a dettagliati rapporti dal fronte, a lettere di combattenti, ad analisi di esperti in strategia – oltre che a tutti gli scrittori e tutti i filosofi che alla guerra hanno tributato meditazioni decisive, da Twain a Tolstoj, da Foucault a Hannah Arendt -, Hillman ci guida a una scandalosa verità: più che un’incarnazione del Male, la guerra è in ogni epoca – lo dimostra la contiguità tra le descrizioni omeriche e i reportage dal Vietnam – una costante della dimensione umana. O meglio, troppo umana.
(Dalla nota di bordo copertina)

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